lunedì 10 giugno 2013

Storia del pescatore, da “Le mille e una notte”


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Un esame della letteratura araba e l’individuazione di un percorso di lettura non può prescindere da un’osservazione preliminare: la nostra quasi totale mancanza di conoscenza degli autori arabi e delle loro opere. Anche gli autori più rappresen­tativi, compreso il premio nobel egiziano Nagib Mahfuz, sono, comunque, conside­rati più come un’opzione, esotica che una conoscenza necessaria per capire un mondo che ci è prossimo. E inquietante sospettare che un giudizio di questo genere possa nascere dal pregiudizio che assimila tutto il mondo e la cultura araba al fon­damentalismo di certi suoi spezzoni di società, peraltro neanche maggioritari. Perciò, quella che propongo non è un’analisi critica, ma piuttosto una proposta di lettura.“Bimbo di Kafr ‘Ana, cosa sei se non un primo punto di questa lunga linea che parte da un camion? Anche la terra è solo un camion che oggi pone la prima pie­tra che governerà sempre più il tuo cuore, come sempre più crescerà la tua cono­scenza di città e paesi che non hai ancora scoperto: tu non sei altro che quello che sarà.Tra qualche anno, con la sicurezza della maturità, tornerai a questo momento e piangerai.Tutto trarrà origine da questo momento; da esso, e rivolto ad esso, nascerà il tuo canto.n destino ti sballotterà, e sarà lungo il tuo peregrinare.Rifugiati, allora, nel seno che ti sta accanto e non ti chiedere dove porta il lento procedere di questo camion mentre si allontana dai regni dell’infanzia!”In questo modo inizia il libro “Testimone oculare” di Muhammed al-Qaysi (Edizioni Lavoro), un poeta che ha voluto testimoniare con questa sua unica opera narrativa la tragedia della diaspora palestinese, la Nabqa.È interessante come a quel camion di cui parla l’autore faccia anche riferimento un altro autore palestinese, Ghassan Kanafani. Questi, nella sua opera più significativa “Uomini sotto il sole”(Sellerio editrice), fa morire i protagonisti del suo racconto in un camion cisterna con il quale speravano di raggiungere clan­destinamente il Kuwait, lasciando disperato il traghettatore che vive un doppio ruolo di rinnegato: quello di palestinese lontano dalla sua terra e di contrabban­diere di uomini nel deserto, che a sua volta è un altro simbolo. Un uomo che rin­nega per soldi la solidarietà con i suoi compatrioti disperati, ma di fronte alla loro morte si sente perso.“Tutta la stanchezza che sentiva gli salì improvvisa­mente al capo e cominciò a ronzargli dentro; allora si mise la testa fra le mani e prese a tirarsi i capelli per scacciare l’idea. Ma era sempre presente, grande e risonante, immensa, incrollabile, evidente.Si voltò indietro, dove aveva gettato i cadaveri, ma non vide niente. Quell’occhiata non fece altro che dar fuoco all’idea, che cominciò a divampare nella sua testa. Non riuscì più a trattenerla, lasciò cadere le mani lungo i fianchi e si mise a fissa­re le tenebre con le pupille sgranate.Il pensiero gli scivolò via dalla testa e gli corse giù sulla lingua: “Perchè non hanno battuto sulle pareti della cisterna?”. Fece un giro completo su se stesso, ma ebbe paura di cadere, cosi si arrampicò al posto di guida e appoggiò la testa al volante.“Perchè non avete battuto sulle pareti della cisterna? Perché non avete chiamato? Perchè?”E tutto il deserto, improvvisamente, cominciò a rimandargli l’eco:“Perchè non avete battuto sulle pareti della cisterna? Perché non avete battuto sulle pareti della cisterna? Perchè? Perchè? Perchè?”Gran parte della letteratura araba è abitata da ribelli, rinnegati, disperati che tro­vano nelle parole scritte dai diversi autori le sembianze di eroi.Forse il punto più alto di questa letteratura, io penso, lo raggiunge Tahar Ben Joullun in “Creature di sabbia”. Un’opera che è suddivisa in una trilogia che com­prende anche “Notte fatale” e “A occhi bassi”, tutti pubblicati da Einaudi. “Creature di sabbia” è una storia che non ha un luogo fisico preciso e nemmeno un tempo preciso. Probabilmente si svolge in Marocco. Anche le persone di questo racconto sono indefinibili, ma sono tutte legate dal loro coinvolgimento nella magia della storia.Non si tratta solo dell’incontro di tanti personaggi, ma anche dell’insieme di tante storie: c’è quella del narratore che morirà prima di finire il suo racconto, perché questa vicenda non ha una fine; c’è quella di Salem, uno schiavo che si è liberato grazie ai suoi studi; c’è quella di Amar e quella di Fatouna, una vecchia che, nel suo pellegrinaggio alla Mecca, ha sentito il bisogno di liberare l’urlo di dolore di Fatima, la sposa infelice della creatura di sabbia. Infine c’è la storia del trovatore cieco, sempre in bilico tra le storie che custodisce, che sono tratte dai libri, e un mondo che non riesce più a distinguere dalla realtà.Ma chi è la creatura di sabbia?“La situazione era precipitata bruscamente, quando ancora nulla lasciava preve­dere una simile evoluzione. L’insonnia era una perturbazione banale delle sue notti: a tal punto era frequente e irriducibile. Ma da quando era insorto quel con­trasto tra lui e il suo corpo, una specie di rottura, il suo volto era invecchiato e il suo modo di muoversi era diventato quello di un handicappato. Non gli restava che rifugiarsi nella solitudine totale. E ciò gli aveva permesso di fare il punto su tutto quanto aveva preceduto quel momento e di preparare la sua partenza defini­tiva verso i luoghi del silenzio supremo.Sapeva che la morte non sarebbe sopraggiunta né per un arresto cardiaco e nep­pure per una qualsiasi emorragia cerebrale o intestinale. Soltanto una tristezza profonda, una specie di malinconia deposta sopra di lui da una mano impacciata, avrebbe finalmente posto fine, senza dubbio nel sonno, ad una vita semplicemente eccezionale che non avrebbe potuto sopportare, dopo tanti anni e tante prove, di concludersi nella banalità quotidiana. La sua morte sarebbe stata all’ altezza della sua vita, che aveva avuto del sublime, ma con la sola differenza che allora lui avrebbe bruciato tutte le sue maschere, che sarebbe rimasto nudo, assoluta­mente nudo, senza sudario, direttamente sulla terra che avrebbe consumato a poco a poco le sue membra, fino a restituirlo a se stesso in quella verità che per lui era stata sempre un pesante fardello. ”Ma se Joullun usa questa narrazione come metafora per spiegare la realtà del suo popolo, Gibran Kahlil Gibran, in “Spiriti ribelli”, si stacca dalla magia del raccon­to tradizionale e utilizza la ribellione dei suoi personaggi per condannare l’arretra­tezza del mondo arabo e per stimolarlo ad aprirsi alla modernità. Le storie che narra parlano di personaggi diversi che sono accomunati fra loro da uno spirito di ribellione verso l’ingiustizia imposta da un ordine sociale che molti chiamano tradi­zione e che, invece, è solo l’ipocrisia con la quale si permette a qualcuno di sfrutta­re legittimamente gli altri.In una di queste storie c’è un giovane, con il volto rigato dalle lacrime, che scava anche lui una fossa nella quale far riposare il povero corpo martoriato della ragaz­za che ha amato. Ogni tanto si interrompe per accarezzarle i capelli e chiamarla disperatamente per dirle il suo amore.“Sono io l’infelice per il quale questa donna è stata lapidata. Ci eravamo amati dal tempo dell’infanzia, quando giocavamo insieme tra le case. Crescemmo e con noi crebbe l’amore e si sviluppò fino a diventare un potente padrone che servivamo con i nostri cuori. Le nostre anime nel loro intimo provavano soggezione davanti a questo amore che ci prese nel suo abbraccio.Un giorno, mentre ero lontano dalla città, il padre della fanciulla la unì con la forza a un uomo che ella detestava.Ritornai, e quando seppi tutto ciò, il mio giorno diventò una notte senza fine e la mia vita una lunga morte amara. Lottai con il mio amore e combattei il desiderio del mio cuore ma alla fine essi ebbero il sopravvento e mi guidarono come il vedente guida il cieco. Un giorno mi recai in segreto dalla mia amata. Il mio più grande desiderio non era che di vede­re la luce dei suoi occhi e udire la musica della sua voce. La trovai sola a lamen­tarsi della propria sorte e a piangere i suoi giorni. Sedemmo insieme e nostro discorso fu il silenzio e nostra compagna la castità. Non era trascorsa un’ora quando suo marito arrivò.Quando mi vide, la sua meschinità ebbe la meglio e afferrato il collo sottile di lei con le rozze mani disse ad alta voce: “Venite tutti a vedere la prostituta con il suo amante!”I vicini accorsero, e poi i soldati, a indagare sull’accaduto. L’uomo la mise nelle loro mani e loro la portarono via con i capelli sciolti e i vestiti strappati. Quanto a me, nessuno mi fece del male, poiché la legge cieca e la consuetudine corrotta puniscono la donna caduta in peccato ma guardano con tolleranza all’uomo “.Una riflessione. Chiunque legga “La vela e la tempesta” (Jouvence edizioni) del siriano Hanna Mani non può non scorgervi l’influenza di Conrad o di Melville, così come non può sfuggire la modernità della struttura narrativa di Malouf che in “Giardini di luce” (TEA Edizioni) ricorda a tratti l’influenza di Hesse. Gli autori arabi, dunque, non hanno difficoltà a contaminarsi con la letteratura occidentale. Al contrario i nostri scrittori, penso soprattutto agli italiani, per il momento respingono questo contagio (con qualche rara eccezione come, per esempio, “Il coraggio del pettirosso” di Maurizio Maggiani) per me salutare con la letteratura araba.È probabile che la sofferenza sempre più evidente della nostra letteratura sia dovu­ta ad una scelta di fondo che è anche una scelta di mercato: quella di rifarsi ai modelli anglosassoni. Questa operazione è però in contrasto con la nostra tradizio­ne che ha radici profondamente mediterranee e quindi naturalmente portata ad uno scambio con le realtà letterarie dei Paesi che si affacciano su questo mare. Scoprire, tradurre e stampare le opere degli autori mediterranei significa anche ribaltare questa logica e aprire un’ altra falla nel liberismo sfrenato e omologante di questa globalizzazione.

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