sabato 8 giugno 2013

Meritarsi l'erba, di Rosaria Tenore


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Il nuovo romanzo di Rosaria Tenore, dal titolo intrigante quanto misterioso “ Meritarsi l’erba”, si connota per un rapporto di discontinuità/continuità con i precedenti “Zizì Caterina” e “ Mario capagloriosa”. La discontinuità è sicuramente nella tematica, mentre sul piano dello stile questo nuovo libro sviluppa quel lavoro sul linguaggio che costituiva uno degli aspetti più innovativi delle due prove precedenti.
Il narratore in terza persona non è il tipico narratore extradiegetico, distante dagli eventi narrati, ma sembra appartenere allo stesso “ milieu” dei suoi personaggi dei quali condivide l’ottica e la lingua, tanto da apparire a volte la voce corale del popolo di Calabbascio.
La sintassi, il ritmo del periodare e spesso il lessico aspro e duro sono infatti di tipo dialettale, non soltanto nei dialoghi in presa diretta dei personaggi, ma anche nelle sequenze narrative attraverso l’uso dell’indiretto libero. E’ una scrittura fortemente mimetica, materiata di cose e di umori, che rende con grande espressività il degrado del reale. Il genere letterario è il “noir” che fotografa una realtà aggrovigliata, frantumata, con un senso di corruzione, di violazione dei valori profondi.
L’autrice descrive il degrado umano e il malessere di una società di provincia che, sotto le anonime apparenze di facciata, vive del “raptus” dell’arricchimento facile e del rapido mutamento di costume. Corruzione e vizio dilagano, mentre la giustizia tarda ad arrivare.
Le “tirate” graffianti nei confronti della giustizia evidenziano il realismo spietato dell’autrice e la sua lucida osservazione del dato dell’attualità.
Ma, con una strategia narrativa molto originale, la struttura del romanzo realistico subisce una “contaminatio” con quella del “fantastico”: ecco allora il personaggio di Gabriele, l’intervento soprannaturale del Maestro, la vicenda degli occhi custoditi in una scatola e destinati alla misteriosa bambina cieca della quale tutti, anagrafe compresa, ignorano l’esistenza.
I personaggi, efficacemente delineati, si possono dividere in due categorie: ci sono i buoni come Incoronata, Nino, Sara, Rosa, Nella la giornalaia, il polacco; e ci sono i personaggi del mondo della violenza senza redenzione e senza giustizia. C’è quindi il contrasto stridente fra ordine e disordine, fra norma e trasgressione.
Il mondo in cui si muovono personaggi apparentemente insospettabili, come Tanino e la moglie o i due tranquilli genitori della bambina cieca, è dominato dal “disordine”, è un mondo alla rovescia, improntato ad una forma di drammatico eccesso, all’osceno superamento della norma comune. E’ indicativo il particolare che nelle situazioni di trasgressione, come la casa di Tanino e la gabbia degli orrori dove è rinchiusa la bambina, ci sia sempre la presenza del diverso, del “corpo malato” ( Cosimino lo zoppo e la piccola cieca). Non c’è ovviamente il disprezzo del diverso, ma il “corpo malato” anticipa e segnala, a mio avviso, una situazione di anomalia rispetto alla normalità del reale, una malattia del corpo sociale.
La vicenda alla fine verrà risolta positivamente, ma ancora una volta attraverso il “disordine”: non sarà la giustizia a rimettere le cose a posto, ma la nonnetta- giustiziera Incoronata mediante il veleno preparato in cucina con la vecchia ricetta della nonna.
Apparentemente il romanzo sembra avere un fiducioso lieto fine con la salvezza della bambina violata dai pedofili e anche con le nozze dei due bravi giovani Nino e Sara, ma non è così. C’è ancora un mondo di disordine in cui la giustizia viene realizzata attraverso un assassinio. Mi sembra indicativo anche l’intervento del valente commissario Giacomino Cutrì: è un funzionario in pensione, non appartiene più al mondo delle istituzioni, è un personaggio che appartiene al passato, ad un momento nostalgicamente evocato in cui le istituzioni funzionavano in difesa del cittadino onesto.
Allora il romanzo assume gli inquietanti contorni di un apologo amaro: in una società senza giustizia, e soprattutto senza la fiducia nella giustizia, torna a trionfare l’istinto tribale della giustizia “fai da te”. Il nome fittizio di Calabbascio non è scelto a caso: indica qualcosa che scende in basso, il degrado di una società, e per questa via il paese di Calabbascio appare la metafora di una realtà che purtroppo ci appartiene.

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