giovedì 30 gennaio 2014
martedì 28 gennaio 2014
domenica 26 gennaio 2014
Ciondolino Vol II, di Luigi Bertelli
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Alla ricerca della verecondia, di Ligi Lodi
LODI, Luigi. - Nacque a Crevalcore (Bologna) il 2
sett. 1856, da Filippo, medico condotto, e da Luigia Marti. Compiuti studi
regolari, si laureò in lettere e in giurisprudenza all'Università di Bologna.
Ancora
studente liceale, aveva preso a collaborare al giornale La
Voce del popolo che, diretto dal garibaldino F. Pais, si stampava a
Bologna. Sul medesimo periodico scriveva G. Carducci, docente di eloquenza
italiana presso l'Ateneo bolognese, dove il L. lo aveva conosciuto. Imbevuto di
entusiasmi risorgimentali, Carducci partecipava in maniera attiva alla vita
politica del capoluogo, così da diventare punto di riferimento per i giovani
che si ispiravano agli ideali progressisti. In questo contesto nacque con il L.
un rapporto di simpatia, stima e poi amicizia: Carducci gli fu accanto allorché
il L. prese a collaborare, nel 1877, con Pagine sparse - rivista di letteratura, filologia e
storia che un anno dopo mutò la testata in Preludio - e quando, nel 1881, fece uscire,
insieme con L. Illica, il Don Chisciotte, di cui
Carducci dettò il programma.
Il
giornale divenne portavoce dell'Associazione democratica bolognese che, vicina
ai liberali progressisti, riscuoteva anche le simpatie dei radicali, dei
repubblicani e dei nascenti circoli operai. Ciò nonostante, non ebbe una vita
economica tranquilla, tanto che più volte il L. si rivolse a Carducci per
sollecitare un suo articolo o dei versi che ne risollevassero le sorti, fino a
pregarlo di voler garantire, presso i tipografi, la somma di 700 lire, così da
indurli a continuarne la stampa.
Carducci
ricordò, in un suo celebre scritto, come fosse stato il L., nel 1878, a
suggerirgli di scrivere l'ode alla regina Margherita, in occasione della visita
dei sovrani a Bologna: erano versi destinati a scatenare contrasti e a divenire
famosi.
Fra
maestro e allievo si stabilì, in breve, una tale comunanza di amicizia e di
interessi politici, che il L. poté offrire, nel 1882, a Carducci - che però
rifiutò - la direzione del Fanfulla della domenica dopo l'abbandono di F. Martini; e
soprattutto poté rivolgergli un accorato appello, nel gennaio del 1883, perché
interponesse i suoi buoni uffici, presso amici romani o massoni, per aiutarlo a
trovare un lavoro lontano da Bologna, delle cui lotte municipali avvertiva,
ormai, tutta l'angustia.
Carducci
fece subito ricorso a L.A. Vassallo, il quale dirigeva, a Roma, il Capitan
Fracassa, invitandolo a chiamare il suo protetto nella redazione
del giornale o in altro similare e, nel contempo, scrisse a F. Napoli,
coproprietario del medesimo quotidiano, manifestandogli la sua stima nel Lodi.
Sulle prime queste parole non ebbero riscontro: il L. fu accolto a Roma alla
corte dell'editore A. Sommaruga, che egli conosceva da tempo e che gli offrì,
nel giugno del 1883, l'incarico di redattore capo de LaDomenica
letteraria.
La
rivista attraversava un momento difficile, dovuto alla concorrenza della ben
più brillante e mondana Cronaca bizantina, edita
dallo stesso Sommaruga; né il L. riuscì nella difficile impresa di risollevarne
le fortune. La gestì in maniera onorevole, dandole un familiare tono di buon
senso che rispondeva alle attese del lettore medio. In una circostanza,
tuttavia, insorse, e fu quando G. Chiarini accusò G. D'Annunzio di avere
utilizzato, nell'Intermezzo di
rime, "i lubrici fantasmi della pervertita sua mente in una
specie di immondezzaio poetico" (Alla
ricerca della verecondia, Roma 1884, p. 3). Il L. prese le difese
del poeta, ribadendo con forza le ragioni dell'indipendenza dell'artista dalla
morale.
Nel
frattempo, le richieste di Carducci andarono a buon fine e, nell'estate del
1883, il L. fu chiamato a lavorare presso la redazione del Capitan
Fracassa. Il giornale - fondato tre anni prima, con pochi mezzi, da
G. Minervini, G. Turco, F. Napoli e L.A. Vassallo - era al culmine della sua
diffusione. Vendeva 20.000 copie e godeva del favore crescente dei lettori, che
ne apprezzavano la spigliatezza grafica, l'indipendenza di giudizio e
l'equilibrato dosaggio di politica, cultura e mondanità.
Si
distingueva, nel panorama grigio della stampa capitolina, per una novità
clamorosa: era illustrato con vignette e ritratti satirici ("il
pupazzetto", come furono definiti), che gli davano un tono scanzonato.
Quando la fotografia muoveva i primi passi e la produzione grafica era legata a
procedimenti costosi, il direttore Vassallo aveva escogitato un sistema
semplice di xilografia che permetteva di commentare, in maniera ironica, i
fatti del giorno o di rappresentare alcuni personaggi della vita pubblica. Nato
con un programma di sinistra, il Capitan Fracassa fu ostile ad A. Depretis e alla sua
politica trasformista, che sembrava sfilacciare la fibra morale del Paese, e
sostenne la necessità di costruire una salda democrazia parlamentare nel
rispetto, fino allo scrupolo, della legalità. Sulla base di queste premesse si
dichiarò ostile all'impresa eritrea, decisa dal governo senza una stima degli
obiettivi e, soprattutto, non tenendo in alcun conto le necessità di bilancio.
Il L. non
ebbe alcuna difficoltà a inserirsi - con lo pseudonimo Il Saraceno, che poi
mantenne sempre - nella compagine del giornale, così da divenirne una firma
autorevole. Forte di questa esperienza, fondò nel dicembre del 1887, insieme
con un gruppo di amici che comprendeva scrittori noti come Vassallo, L.
Bertelli, U. Fleres, E. Faelli e C. Pascarella, oltre la moglie, Olga Ossani,
meglio conosciuta con lo pseudonimo di Febea (nonché probabile ispiratrice
della Elena Muti del dannunziano Piacere), il Don
Chisciotte della Mancia, di cui fu nominato direttore.
Il
giornale, che riprendeva il programma dettato da Carducci per il Don
Chisciotte bolognese, nasceva nel momento in cui F. Crispi,
divenuto nell'agosto presidente del Consiglio, cominciava a impensierire i
democratici italiani: il mancato rinnovo del trattato commerciale con la
Francia e la sua visita, non richiesta, al cancelliere tedesco O. von Bismarck
avevano confermato la scelta triplicista del governo e alimentato
preoccupazioni di possibili conseguenze deleterie in economia. Il pugno di
ferro usato con gli operai romani, scesi in piazza per protestare contro la
crisi edilizia, inoltre, rivelava una tendenza autoritaria, che urtava i
progressisti italiani e faceva intravedere nubi minacciose sul sistema
costituzionale, messo in discussione da un esecutivo di stampo "prussiano".
Il giornale, dopo un breve periodo di cauta attesa, prese a guardare con
fiducia alla figura carismatica del leader radicale F. Cavallotti, alla cui
opera in difesa della legalità, diede sostegno e diffusione. Inoltre prese
posizione contro un impegno coloniale che allargasse la presenza italiana in
Africa e fu fautore della riduzione delle spese militari per destinare il
risparmio a uso interno.
Non
potendo piegare il giornale alla sua linea, Crispi decise di comprarlo
surrettiziamente, per mezzo di intermediari, usando i fondi segreti di cui
disponeva la presidenza del Consiglio. Quando il L. e i suoi amici scoprirono,
quasi per caso, l'operazione, abbandonarono l'impresa pur di salvare la loro
indipendenza.
Negli
anni successivi il L. diede vita a Il Torneo che, uscito il 5 maggio 1892, durò
pochi mesi; nel gennaio del 1893, affiancato dalla moglie, diede avvio a La
Nuova Rassegna, settimanale che si proponeva di contribuire alla
formazione della coscienza collettiva e in cui le riflessioni sulla politica e
sull'economia si alternavano alle critiche d'arte, alle cronache teatrali e a
contributi narrativi e poetici. Quell'esperienza consentì a letterati e
studiosi un proficuo confronto: D'Annunzio vi stampò la novella Il
primogenito, anticipazione del Trionfo della morte, e vi
scrisse di finanza il giovane F.S. Nitti, che portò anche l'esperienza di
studiosi stranieri suoi amici.
Nel
contempo il L. progettava con la moglie Olga un nuovo quotidiano, Il
Don Chisciotte di Roma, il cui primo numero fu nelle edicole il 15
ott. 1893.
Quando il
giornale apparve, l'Italia era squassata dallo scandalo della Banca romana: il
20 dic. 1892 N. Colaianni aveva denunciato alla Camera dei deputati le
malversazioni compiute dal governatore B. Tanlongo, con la connivenza di alcuni
autorevoli uomini politici e di governo. L'accusa del deputato siciliano aveva
scoperchiato d'improvviso, davanti all'opinione pubblica attonita, un verminaio
che sembrava spiegare le cause di una vita parlamentare misera e immobile. La
battaglia per il rinnovamento del Paese diede a Il
Don Chisciotte di Roma notorietà
e ne favorì la diffusione.
Crispi,
succeduto nel frattempo a G. Giolitti, prese a governare in maniera
autoritaria, senza tenere in gran conto le garanzie previste dallo Statuto e,
seguendo i propri fantasmi, giunse perfino a invocare, parlando a Napoli il 10
sett. 1894, un'alleanza fra trono e altare per battere le forze sovversive
dell'ordine politico e sociale. Qualche mese dopo, in dicembre, Giolitti
depositò presso la presidenza della Camera dei deputati le carte in suo
possesso relative allo scandalo della Banca romana. I documenti chiarivano gli
equivoci rapporti che Crispi aveva mantenuto con l'istituto di credito e da ciò
nacque il fondato sospetto che egli ne avesse ricavato ingenti guadagni. Di
fronte alla richiesta di limpidezza morale che saliva dal Paese, il presidente
del Consiglio agì con disprezzo verso chi, come Cavallotti, invocava il
rispetto della costituzione. Il Don Chisciotte di Roma si pose ancora una volta, senza alcuna
riserva, in sintonia con il leader radicale, denunciando la megalomania
imperialista di Crispi e il pericolo che egli costituiva per la democrazia nel
Paese. Fu in questo frangente che giunsero alla rottura i rapporti tra il L. e
Carducci: questi, legato al presidente del Consiglio sia per l'appartenenza
alla fratellanza massonica, sia nella convinzione che le ragioni dell'unità
dello Stato prevalessero sulla incipiente "questione sociale", ne
difese la figura e l'opera, giungendo a paragonarlo a Mazzini, Vittorio
Emanuele II e Garibaldi. I suoi interventi parvero tradire le idee democratiche
professate per un'intera vita: toccò al L. denunciare tale contraddizione.
Per di
più, nel dicembre del 1895, andando sposa la figlia di Crispi, Carducci le
dedicò una composizione il cui contenuto suonava a condanna di quanti
criticavano l'operato del padre e a elogio dei suoi trascorsi di patriota. Ebbe
buon gioco Il Don Chisciotte di Roma a rimproverargli, commentando un duro
giudizio di Cavallotti, di aver ridestato la sua musa, che taceva da un pezzo,
solo per blandire la vanità d'un prepotente e a ricordargli che avrebbe fatto
bene a commuoversi piuttosto per la figlia di G. De Felice Giuffrida, alla
quale non era concesso di rivedere il padre ingiustamente detenuto. Non ci
volle altro per far divampare l'ira di Carducci, che nella Gazzetta
dell'Emilia rispose
violentemente dimenticando il pluriennale affetto per l'allievo. Ne scaturì un
duro scambio di articoli con il L., che non celò l'amarezza per le posizioni
del Carducci.
Dalla
successiva "crisi di fine secolo", il giornale del L. uscì rafforzato
nelle sue strutture e nel favore dei lettori, tanto che nel dicembre del 1899
si fuse con un altro quotidiano romano, Il Fanfulla, dando origine a Il
Giorno, un giornale dai risvolti grafici innovativi, come la stampa
di pagine a colori, e che ospitò alcune odi di D'Annunzio destinate a confluire
nel secondo libro delle Laudi. Il foglio, che si
definiva schiettamente liberale e libero, ebbe il pregio di intuire, fra
l'altro, che il Paese aveva necessità di una svolta decisa in politica interna
e di cogliere tutta la novità della proposta politica di Giolitti, che aveva
operato una scelta di campo in favore di una democrazia partecipativa.
"Chi vuole lo Stato per una classe" -chiosava il giornale - "sta
con l'onorevole Sonnino; chi crede non possa aver forza durevole e benefica che
nel consentimento del maggior numero di persone, va con l'on. Giolitti" (Il Giorno, 24 sett. 1900).
Così ben
avviato Il Giorno sembrava destinato a lunga vita. Il 31
dic. 1900, invece, una nota avvisava della sua fusione con La
Tribuna: dal momento che il senatore L. Roux, così recitava la
nota, aveva assunto la direzione del giornale confratello, diveniva superflua
la coesistenza, se non la concorrenza, nella stessa città, di due periodici
entrambi ispirati a una politica liberale. È probabile che i motivi
d'opportunità invocati fossero davvero all'origine della decisione, ma nello
scritto si accennava anche a sacrifici finanziari eccessivi: è pur vero che i
giornali si venivano costituendo in aziende, non più affidate alla sola
"benevolenza dei lettori", spesso insufficiente a coprirne le spese.
Il L.
tornò alla guida di un periodico il 15 ott. 1905, allorché comparve nelle
edicole La Vita.
Il nuovo
quotidiano era stato voluto dalla direzione del partito radicale e anche se da
questa non dovette ricevere mai, per quanto è dato sapere, alcun aiuto
economico, ne rispecchiò con sufficiente fedeltà gli umori, sostenendo
soprattutto la componente moderata. A partire dal 1909 il giornale poté contare
su una maggiore stabilità finanziaria. Alcuni autorevoli esponenti radicali,
quali E. Sacchi, il segretario amministrativo G. Amici, i deputati A.
Giovannelli e D. Zaccagnino, in possesso di un cospicuo patrimonio personale,
lo comprarono; l'acquisto fu concluso a titolo privato e con il concorso anche
di persone di diverso orientamento politico.
Il
giornale rimase, se non portavoce ufficiale, certo abbastanza vicino ai
radicali, interpretando la linea politica del partito e intervenendo con
suggerimenti e critiche. Certo è che esso sostenne gli interessi dei ceti medi,
che di quel partito costituivano la spina dorsale e la base, e s'impegnò nella
difesa dello Stato laico, battendosi affinché fossero introdotte riforme quali
l'abolizione dell'insegnamento religioso nelle scuole elementari, la precedenza
del matrimonio civile, il divorzio e, più in generale, la separazione fra Stato
e Chiesa e la non ingerenza di questa in quello. Particolare sostegno il
giornale dette alla campagna in favore del voto alle donne, di cui fu
promotrice e anima Olga Ossani. Sul piano elettorale, infine, il quotidiano
appoggiò l'alleanza delle forze laiche e l'unione, quindi, di radicali,
repubblicani e socialisti nei "blocchi popolari". Tali riforme, per
cui il L. si batté nel corso di un decennio non andarono, com'è noto, a buon
fine. Il bilancio di questo lungo impegno si chiuse con una serie di sconfitte,
le quali significarono, anche, la sconfessione di un'Italia migliore. È
probabile, dunque, che la guerra, una volta scoppiata, gli apparisse, al pari
degli altri interventisti democratici, l'occasione per rimuovere, dal cuore
dell'Europa, il potere di un'antica nemica, l'Austria, sugli Italiani irredenti
e, nello stesso tempo, il centro dell'oscurantismo continentale. Dal momento
che La Vitaassunse, invece, un indirizzo
neutralista, il L. l'abbandonò nel 1914.
Negli
anni successivi il L. entrò a far parte della famiglia del Giornale
d'Italia e collaborò
a molte delle sue iniziative editoriali. Del quotidiano condivise la visione
del fascismo come una forza giovane, nata dalla guerra, che aveva il compito di
salvare l'Italia dall'urto di orde brutali, annebbiate dalla propaganda
sovversiva, per restituirlo a una guida moderata. Se la democrazia liberale, in
breve, non era riuscita per propria debolezza e per incapacità dei capi ad
avviare il Paese sulla strada della modernità, era necessario cercare altrove
risposte a domande rimaste per troppo tempo inevase. La delusione per le
mancate riforme portò dunque il L. a ritenere fallito il sistema che avrebbe
dovuto realizzarle. Va aggiunto che egli non trasse alcun vantaggio dal nuovo
regime.
Il L.
morì a Roma il 22 febbr. 1933, dopo una lunga malattia, ormai quasi dimenticato
da tutti.
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Ciarle e macchiette, di Luigi Vassallo, detto Gandolin
Luigi Arnaldo Vassallo, detto Gandolin, nasce a Sanremo il 30 ottobre del 1852.
Ancora molto giovane, dà vita, assieme a Vittorio Gaetano Grasso e Giacomo Dall'Orso, al foglio La maga, di carattere repubblicano e rivoluzionario, oggetto di continue censure. Prima di scoprirsi giornalista, lavora come copista, poi come impiegato presso un procuratore, quindi come maestro elementare.
Il suo primo articolo, datato 1869, viene pubblicato su "La Giovane Italia". Per qualche anno dirige L'avvenire, poi, nel 1877, torna a Genova e dà vita al Mondo illustrato, per l'editore Ludovico Lavagnino. Grazie al giornale genovese Caffaro inizia l'attività di cronista, e i suoi pezzi giungono sino alla stampa italiana in Argentina, Brasile e Stati Uniti.
Nel 1880 si trasferisce a Roma per dirigere Lo Squillo. Sempre a Roma fonda e dirige i fogliCapitan Fracassa (maggio 1880), Don Chisciotte della Mancia e Don Chisciotte di Roma. Nel 1886 fonda Il Pupazzetto, rivista mensile illustrata nella quale il Vassallo si firma con lo pseudonimo "Gandolin", ossia vagabondo. In questo periodo pubblica inoltre alcune raccolte di poesie e diverse commedie. Nel 1896 assume la direzione del quotidiano Secolo XIX.
Ferito durante un duello di pistola per divergenze politiche tra garibaldini e mazziniani, si salva per miracolo. Vassalli lavora anche per il cinema: nata una coproduzione Italia-Francia-Spagna per Policarpo, ufficiale di scrittura, ne cura il soggetto. Dal suo romanzo La famiglia De-Tappetti del 1903 ne viene tratto un film, nel 1959.
Luigi Arnaldo Vassallo muore a Genova il 10 agosto 1906, lasciando un'impronta indelebile nel giornalismo italiano.
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venerdì 24 gennaio 2014
Il castello di Otranto, di Horace Walpole
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“Il castello di Otranto”
è un romanzo
gotico di
Horace Walpole (1717-1797),pubblicato
nel 1764.
Questa tipologia di romanzo si sviluppa
nella seconda metà del 700 e rispecchia tutte quelle forze irrazionali
dell’immaginario più indirizzato verso il cupo, il tenebroso e il misterioso
che in quel periodo si tendeva a rifiutare. Ecco quindi che diventa l’altra
faccia della medaglia rispetto al “classico” romanzo che si era già affermato
nello stesso periodo e che al contrario voleva essere visto come vero. Il
romanzo gotico avrà molto successo non solo nel 700, ma anche nell’800 e poi
nel ‘900. All’interno di questa tipologia di romanzo troviamo una serie di temi
che hanno a che fare con l’irrazionalità, il soprannaturale.. si costruisce
tutto attorno ad un armamentario di oggetti e situazioni che creano l’atmosfera
e la situazione in cui si svolgeranno i fatti (castelli, botole, fantasmi etc.
).
Walpole, per la stesura di questo romanzo,
si fa ispirare da un sogno grazie al quale si sentirà talmente travolto che
scriverà di getto senza badare alle regole, ai critici o ai filosofi, ed è per
questo che lo ritiene il suo miglior lavoro. Certo è che Walpole all’inizio non
credeva che la sua opera potesse riscuotere un così gran successo, tanto è vero
che per la prima edizione del 1764 (ce ne saranno in seguito altre due, nei due
anni successivi), non volle esporsi e così firmò il libro sotto uno pseudonimo,
quello del traduttore William Marshal, fingendo di aver tradotto questa storia
“dall’originale di Onofrio Muralto, canonico della chiesa di San Nicola, di
Otranto”. Una volta ricevuto il massimo consenso da parte del pubblico di
lettori, Walpole decise allora di riconoscerne la paternità, firmandosi nella
seconda edizione (1765) con le iniziali H.W.. Nonostante ciò, il pubblico
riconobbe le iniziali e attribuì l’opera ad Horace Walpole. Dalla terza
edizione (1766) in poi, avremo una smisurata serie di edizioni mai vista prima
per un altro libro..almeno 115.
Come ho detto in precedenza, scrisse di
getto il racconto dicendo di “essere felice di poter non pensare per una po’
alla politica”. Questa citazione ci ricorda che Walpole aveva parte attiva in
politica, avendo un seggio in parlamento, ma spesso questa lo deludeva e allora
scappava rifugiandosi in “un passato di gioie e sicurezze” in cui “antichi
castelli, antichi quadri, antiche storie e le chiacchiere degli anziani ci
portano a vivere in secoli passati che non possono deluderci”. Lo scenario in
cui si svolge il romanzo è sicuramente ispirato al castello di Strawberry Hill,
casa comprata da Walpole e poi ristrutturata in castello secondo il suo gusto
gotico. Ne “Il castello di Otranto” Walpole non solo intendeva divertire il
pubblico, ma anche istruirlo; ed è
per questo che
mette particolare attenzione ai costumi dell’epoca in cui ha luogo l’azione.
Spesso fa riferimenti dettagliati proprio per far comprendere meglio al lettore
quello che sta leggendo. L’innovazione di questo romanzo è il volere, da parte
dell’autore, fondere
2 tipi di novella: quella antica e quella moderna,
recuperando quello che era il tema cavalleresco, ma in chiave moderna cercando
di rimanere comunque vicini alla realtà. Si narra quindi di una giovane donna
in pericolo, perseguitata da un signore malvagio, ma che però verrà salvata da
un eroe. Walpole fu particolarmente soddisfatto ad esempio della propria
gestione delle figure dei domestici e dei loro modi di fare grossolani, che
creano un’atmosfera in cui l’avvenimento miracoloso sembra ancora più
plausibile e ritardano visibilmente il proseguire dell’azione. Modello a cui si
ispirò l’autore fu Shakespeare, dal quale prese in prestito alcuni passaggi: ad
esempio quando Matilda (figlia del principe di Otranto Manfredi) mette in
guardia Teodoro dalla balconata, ricorda la scena del balcone tra Romeo e
Giulietta..
TRAMA: Il principe di Otranto Manfredi è
preoccupato per il suo regno in quanto è soggetto ad una profezia che dice “che
il suo regno e la sua famiglia verranno a mancare, quando il vero possessore
sarà troppo grande per abitarvi”. Per questo motivo Manfredi fa sposare il
figlio Corrado con Isabella, figlia del marchese di Vicenza, sotto la sua
tutela ormai da tempo. Il giorno delle nozze però, il figlio morirà schiacciato
da un elmo gigante e di questo verrà accusato il contadino Teodoro solo perché
quest’ultimo aveva riconosciuto quell’elmo come quello che possedeva la statua
d’Alfonso nella chiesa di San Nicola e per questo verrà imprigionato. La stessa
notte Manfredi va da Isabella dicendo di voler ripudiare la moglie Ippolita,
perché sterile, e di voler sposare lei per poter quindi continuare a regnare.
La giovane impaurita scappa dal castello e lo farà tramite una botola nei
sotterranei dove verrà aiutata da un giovane a lei sconosciuto, che poi si
scoprirà essere Teodoro. La ragazza arriva alla chiesa di San Nicola dove
incontra padre Girolamo e racconta dell’accaduto, così questo decide di andare
al castello il giorno dopo per parlare con il principe e dissuaderlo da
quell’intento. La notte stessa, la principessa Matilda, figlia di Manfredi, ha
modo di parlare, ma senza farsi vedere, con Teodoro e di questo si innamora. Il
giorno dopo Manfredi annuncia la condanna di Teodoro e per questo Matilda
sviene. Nel frattempo Padre Girolamo era arrivato al castello per parlare col
principe, il quale non si fa dissuadere e nel momento in cui Padre Girolamo si
presta a confessare il condannato, scopre che questo è suo figlio, disperso
anni prima. A questo punto Manfredi ricatta il padre dicendo che se non vuole
che uccida il figlio, dovrà convincere Isabella a sposarlo. Così il padre va in
chiesa, ma scopre che Isabella si è recata al castello perché le è arrivata
voce che la principessa Ippolita è morta. E’ ovvio che è un equivoco, così
torna indietro per
spiegare il
malinteso e distoglierla dal tornare al castello. Intanto al castello si era
recato un araldo dicendo di dover parlare con l’usurpatore di Otranto e
ritendendosi il diretto discendente d’Alfonso (primo regnante della signoria di
Otranto) e di parlare in nome di Federigo, marchese di Vicenza, il quale
rivuole indietro la figlia Isabella, e se così non sarà dovrà scontrarsi in
duello con il marchese stesso. Così Manfredi, nasconde la fuga della giovane e
manda a dire che avrebbero risolto tutto in modo amichevole e se così non fosse
stato possibile, si sarebbe avuto il duello. Così il marchese di Vicenza si
reca da Manfredi chiedendo di persona la figlia, ma capisce che Isabella non è
più nel castello e così partirà lui stesso alla sua ricerca. Intanto Teodoro fu
di nuovo imprigionato, ma questa volta verrà liberato da Matilda. Una volta
libero va anche lui alla ricerca di Isabella, volendola proteggere da Manfredi,
fin quando la trova e con lei si rifugia in una grotta. All’improvviso sentono
delle voci gridare il nome della giovane. Era il marchese. Purtroppo né Teodoro,
né Isabella sapevano chi fosse e così il giovane per difenderla ferì il
cavaliere. Solo dopo si scoprirà chi è. Quest'ultimo fu portato al castello e
raccontò che aveva trovato la spada compagna dell'elmo che prediceva che sua
figlia era in pericolo. Manfredi propose a Federico la mano di Matilda in
cambio di quella di Isabella e costui, affascinato da Matilda, acconsentì; ma
poi cambiò idea a causa dell'apparizione di uno scheletro (ovvero l’eremita che
in passato lo aveva avvertito della figlia) che glielo impedì. Nel salone fu
vista di nuovo la mano di un gigante. Manfredi si allontanò alla ricerca di
Isabella che credeva essere con Teodoro. Si recò dunque nella Chiesa di San
Nicola dove vide il giovane con una donna e, credendo che fosse Isabella, la
accoltellò, non riconoscendo che, invece, era Matilda. Dopo la morte di
Matilda, un boato fece crollare il castello e la figura di Alfonso apparve al
centro delle rovine. «Ecco Teodoro, il vero erede di Alfonso!» disse la visione
che ascese al cielo, dove le nuvole rivelarono la figura di San Nicola.
Manfredi svelò l'usurpazione di suo nonno e Girolamo raccontò le vicende degli
antenati di Teodoro. Manfredi dunque abdicò, mentre Ippolita si ritirò in
convento con Isabella che, solo dopo Teodoro decise di sposare.
giovedì 23 gennaio 2014
lunedì 20 gennaio 2014
mercoledì 8 gennaio 2014
Le cose piu' grandi di lui, di Luciano Zuccoli
Luciano Zuccoli, pseudonimo del Conte Luciano Von Ingenheim nacque a Calprino nel Canton Ticino il 5 dicembre 1868.
Di famiglia aristocratica e aristocratico nello stile di vita e di costume, si gettò giovanissimo nell'arringo letterario e pubblicistico dopo una breve esperienza come ufficiale di cavalleria; collaborò al fiorentino «Marzocco» e poi dal 1898 al 1900 diresse il giornale da lui fondato «La provincia di Modena» e, dal 1903 al 1912, la «Gazzetta di Venezia». Dovette abbandonare la direzione di questo giornale in seguito alle polemiche destate dal suo violento antisemitismo, che urtava la proprietà del giornale e che giunse al suo apice nell'articoloLa necessità della repressione il 27 ottobre 1911 a proposito della guerra di Libia, nel quale si legge fra l'altro: «Diciamolo francamente: troppi prigionieri. Due terzi almeno di quei prigionieri dovevano e potevano essere fucilati».
Due giorni dopo, il 29 ottobre, definisce nemici interni, nell'articolo Stranieri tollerati, i socialisti e gli ebrei, attaccando pesantemente Elia Musatti che accomunava nella stessa persona le due categorie così aborrite dallo Zuccoli. Dieci anni dopo partirà per l'Africa, deciso a costruire in Italia il genere “letteratura coloniale”, come lui stesso afferma in una lettera al suo vecchio redattore Gino Damerini. Più tardi i redditi della sua attività di narratore gli permisero di praticare in forme più indipendenti il giornalismo: fu collaboratore, tra l'altro, del «Corriere della Sera» e della «Illustrazione italiana». Trascorse a Parigi gli ultimi anni della vita.
Fu romanziere fecondissimo e gradito a un certo pubblico per la elegante se pur superficiale misura del suo stile, e anche per una diffusa coloritura di snobismo visibile nell'ambientazione delle vicende dei suoi romanzi. Partito da posizioni veristiche e dannunzianeggianti, lo Zuccoli, sotto l'influsso del romanzo francese del suo tempo e soprattutto di Bourget, venne via via affinando la sua tecnica in quella che in un certo senso fu la sua “specialità”: l'analisi dell'anima femminile colta nei momenti di crisi morale e di inquietudine nei suoi primi confusi turbamenti erotici, con particolare attenzione all'aspetto fisiologico dell'amore; molto acute anche le indagini di psicologia infantile, anch'essa analizzata nel sorgere delle prime inquietudini dei sensi e dei sentimenti.
Della lunga serie dei suoi racconti e romanzi, dal 1893 all'anno della morte, pubblicati con ritmo costante, si possono ricordare: I lussuriosi (1893), Il designato (1894), Roberta (1897), Il maleficio occulto (1901, dopo quattro anni di silenzio pubblicato in appendice a «La Tribuna» dal 18 agosto al 10 settembre 1901), Ufficiali, sottufficiali, caporali e soldati (1902), L'amore di Loredana (1908), Farfui (1909), La freccia nel fianco (1913; soggetto per l'omonimo film del 1944 di Alberto Lattuada), L'occhio del fanciullo (1914), Baruffa (1917), L'amore non c'è più (1918), Fortunato in amore (1919), La divina fanciulla (1920; è servito da soggetto per il film Divina Creatura di Patroni Griffi del 1975), Le cose più grandi di lui (1922), Kif Tebbi, romanzo africano (1923; da questo romanzo il film di Camerini Kiff Tebby del 1927), I ragazzi se ne vanno (1927) e Lo scandalo delle Baccanti (1928).
Morì a Parigi il 26 novembre 1929.
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Donne e fanciulle, di Luciano Zuccoli
"Già il titolo del volume spiega che di ciascuna delle novelle qui raccolte è protagonista una donna o una fanciulla, dell'aristocrazia, della borghesia ricca, delle classi medie, del popolo. Ma non dice, il titolo, che il libro è molto indulgente, e devo dirlo io. Quando non sian buone e ingenue, queste mie donne, sono colpevoli per colpa degli altri, come avvien quasi sempre nella vita; perchè io credo che la responsabilità della donna si sia esagerata sempre, e in questi ultimi tempi sia stata portata alle stelle da alcuni scrittori, i quali voglion vedere nella donna La Nemica, per antonomasia, con iniziali maiuscole. Di maiuscolo, a mio credere, non v'è il più delle volte che l'asinità dell'uomo; epperò il mio libro è indulgente, e raffigura la donna come una creatura di grazia, che gli uomini possono condurre a perdizione più presto e più sovente di quel che la donna non conduca a perdizione gli uomini; e dà alla donna una responsabilità ben piccola dei malanni che può commettere, e a cui gli uomini la incitano per il loro interesse egoistico, o l'incoraggiano storditamente con l'esempio."
L'apostolo, di Remigio Zena
Remigio Zena (pseudonimo di Gaspare Invrea) nacque a Torino nel 1850 e morì a Genova nel 1917.
Di famiglia aristocratica, ebbe una educazione tradizionalista e religiosa. Dopo un soggiorno a Parigi, nel 1867 si arruolò negli Zuavi pontifici per difendere la città vaticana. Dopo la Breccia di Porta Pia, continuò gli studi in giurisprudenza, laureandosi nel 1873, e fece carriera nella magistratura militare.
Ha scritto racconti (la raccolta "Le anime semplici" è del 1889) e componimenti poetici di intonazione religiosa e moraleggiante, ma con tratti anche ironici e vivaci, di gusto scapigliato (tra questi, "Poesie grigie" del 1880, "Le Pellegrine" del 1894 e "Olympia" del 1905). Nel suo primo romanzo, "La bocca del lupo" (1892), segue la narrazione impersonale e lo stile di Verga ma la storia supera i confini del Verismo, per la straordinaria capacità stilistica dello scrittore e la sua forza poetica, che si tramuta in una scrittura piena di umanità e di ironia attraverso la quale vede i protagonisti e la varia popolazione dei vicoli portuali.
Eugenio Montale ha scritto: «Nessuno capì così bene i poveri, i diseredati, come lo Zena; nessuno li lasciò ragionare con tanta indulgenza, con tanta pietà superiore e nascostamente sorridente».
Diverso è l'altro romanzo, "L'apostolo", del 1901. Ambientato nella Roma di Leone XIII, narra, con uno psicologismo chiuso e morboso, la storia fogazzariana di un giovane aristocratico, il cui cattolicesimo inquieto si scontra con i dogmi delle gerarchie ecclesiastiche.
Malato agli occhi, trascorse gli ultimi anni della vita appartato e lontano dalla società letteraria.
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martedì 7 gennaio 2014
I racconti di Hanrahan il rosso, di William Butler Yeats
Poeta premiato col Nobel alla letteratura, William B. Yeats
è conosciuto come uno dei migliori artisti irlandesi vissuti a cavallo tra la
fine dell'ottocento e i primi del novecento.
Grande appassionato di occultismo nonché del folklore
celtico, Yeats ha da sempre cercato di rappresentare e divulgare la cultura del
suo popolo interessandosi in modo particolare alla poesia e alla raccolta di
fiabe irlandesi.
L'antologia/romanzo La Storia di Red Hanrahan è una di via
di mezzo tra le due passioni dell'autore. Yeats propone le vicessitudini del
dotto poeta e paroliere Hanrahan, articolandole in sei brevi capitoli (alcuni
dei quali persino superflui) non sempre ben collegati tra loro. L'artista, un
tempo maestro e cantautore d'eccezione, si trova costretto a vivere da nomade,
trasferendosi di continuo per i boschi e le campagne d'Irlanda. Sull'uomo grava
infatti una maledizione subita la vigilia della notte di Samhain, per mano di
un misterioso vecchio, proveniente dalla Francia, dotato di poteri paranormali
(belle le descrizioni con quest'ultimo che ipnotizza, manovrando delle carte da
gioco, gli avventori di un'osteria). A seguito del maleficio, Hanrahan, sul
punto di sposare la sua amata (che non vedrà mai più), si trova a inseguire
nella foresta una lepre braccata da una muta di cani (generati dal sortilegio
del vecchio), perdendo un anno della propria vita volato via in un battibaleno
(si respira forte aria di stregoniera, peraltro con la presenza di quattro
vecchie poste a presidio di una ragazza di rara bellezza, ma schiava di un
sonno perenne). Yeats cita vagamente Carroll (Alice nel Paese delle Meraviglie,
Alice entra nel mondo fatato inseguendo un coniglio) trasferendo il suo personaggio
in una dimensione distorta che lo allontana dalla vita per un periodo che ad
Hanrahan sembra di una notte, ma che in realtà corrisponde a dodici mesi.
Sul poeta, da principio smemorato, iniziano così a circolare
strane voci: si mormora che su di lui gravi una maledizione e che la sua
presenza sia indice di sventure; intanto la sua amata si è sposata con un altro
uomo e la cosa non viene accettata dal poeta. Ferito nell'animo, Hanrahan si
trova a dover emigrare di continuo di paese in paese, trovando la consolazione
al pianto solo nel decantare canzoni ai quattro venti o a gruppi di giovani a
cui si manifesta in vesti di maestro. I concittadini, pur riconoscendogli
l'immenso talento, non vogliono avere troppo a che fare con lui (accettano di
sentirlo cantare ma nulla più), c'è persino che escogita stratagemmi per
sbatterlo fuori di casa, e di questo il povero Hanrahan se ne duole senza mai
infierire nonostante di lui si dica che "quando la gente della terra
d'Irlanda gli faccia male, lui conosca il modo di darle male per male".
Yeats condisce la storia (dai chiari contorni fiabeschi),
con spruzzate oniriche (poche, per la verità) e soprattutto con una massiccia
dose di malinconia (Hanrahan incarna l'archetipo del poeta romantico ma
maledetto, destinato alla sofferenza perenne). Non mancano stralci di poesia
(con musicalità delle parole penalizzata dalla traduzione), campo di elezione
dell'autore, ma alla fine, eccetto l'ottimo capitolo iniziale, la noia discende
presto a farla da padrona.
Epilogo tragico, con un Hanrahan, ormai vecchio, destinato
ad aver vita felice solo nell'aldilà, dove dominano gli spiriti del Popolo
Eterno.
Il volume è assai breve, anche in considerazione del formato
tascabile (15.50 cm * 10,50 cm), e si legge in poco meno di due ore. Nel
complesso si rivela piuttosto deludente, vista la firma apposta sul progetto,
anche se molto elegante nella prosa.
Tra i passaggi criptici il fulcro della vicenda (nonchè del
maleficio) ruota attorno ai semi delle carte manovrate dal vecchio a inizio
racconto: "Picche e Quadri, Coraggio e Potere; Fiori e Cuori, Conoscenza e
Piacere"; nonché alle frasi, dal vago sapore di una sentenza di condanna,
mormorate dalle quattro streghe - rappresentanti dei semi delle carte -
ignorate da Hanrahan nel suo viaggio all'inseguimento della lepre: "Non ha
alcun desiderio di noi; E' debole, è debole; Ha paura; Ha perso il senno.
Echtge, la figlia di Mano d'Argento, dovrà dormire ancora. E' un peccato, un
gran peccato!"
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J'Accuse, di Emile Zola
J’Accuse…! (Io accuso…!) è il titolo dell'editoriale scritto dal giornalista e scrittore francese Émile Zola in forma di lettera aperta al Presidente della Repubblica francese Félix Faure, e pubblicato dal giornale socialista L'Aurore il 13 gennaio 1898, con lo scopo di denunciare pubblicamente le irregolarità e le illegalità commesse nel corso del processo contro Alfred Dreyfus, al centro di uno dei più famosi affaires della storia francese.
La locuzione «j'accuse» è entrata nell'uso corrente della lingua italiana, come sostantivo, per riferirsi a un'azione di denuncia pubblica nei confronti di un sopruso o di un'ingiustizia.
Nel 1894, Alfred Dreyfus, un capitano dell'Esercito, ebreo, in servizio presso il ministero della guerra francese, fu accusato di aver rivelato informazioni segrete all'Impero tedesco, nazione in quel momento fortemente contrapposta alla Francia. Dopo un giudizio sommario, Dreyfus fu accusato e condannato alla deportazione a vita sull'isola di Caienna. Dopo una forte ondata di antisemitismo che attraversò la Francia, Émile Zola si schierò a favore dell'ufficiale tramite un articolo in cui accusava i veri colpevoli di questo avvenimento e di questo processo falso. A causa del «J'accuse...!», Zola fu condannato a un anno di carcere e a tremila franchi di ammenda per vilipendio delle forze armate nel processo che durò dal 7 al 23 febbraio (fu lo scrittore Octave Mirbeau che pagò i 7.525 franchi della multa e delle spese del processo, nell'agosto 1898). Nonostante questo, la lettera aperta al presidente Félix Faure provocò la riapertura del caso.
La situazione si risolse, tuttavia, solo il 12 luglio 1906, quando Émile Zola era già morto da quasi quattro anni, e quando la corte di cassazione revocò la sentenza con cui Dreyfus era stato accusato di tradimento. In seguito a questa sentenza, venne reintegrato nell'esercito.
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lunedì 6 gennaio 2014
Le carceri russe, di VERA FIGNER
Verso
la fine del secolo XIX ed all'alba del secolo XX, assai prima che scoppiasse la
rivoluzione del 1905, la Russia non aveva che due soli luoghi di pena ove i
forzati politici venivano segregati. Erano all'oriente le miniere di Kara nella
Siberia Orientale e ad occidente, la celebre fortezza dello Schlusselburg.
Questa vera Bastiglia russa, che sin dall'800 possedeva già un passato quanto
mai tragico e lugubre, attirava in modo speciale l'attenzione del popolo russo....
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PET'KA IN DACIA, di LEONID ANDREEV
Osip Abramovic, il parrucchiere, aggiustò il lenzuolo sporco sul petto del cliente, lo ficcò con le dita nel colletto e gridò a strappi e recisamente:- Ragazzo, dell'acqua!
Il cliente, guardando nello specchio la sua fisionomia con quell'attenzione accentuata e quell'interesse che appaiono solo dal parrucchiere, notava che sul suo mento si era aggiunto un altro brufolo, e spostava insoddisfatto gli occhi, capitati direttamente sulla magra, piccola manina che da qualche parte si tendeva alla specchiera e metteva la scatola con l'acqua calda.....
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L'abisso, di LEONID ANDREEV
Il giorno stava per finire e i due giovani continuavano a camminare e a parlare senza accorgersi del tempo e della strada. Davanti a loro, su una collina scoscesa, nereggiava un boschetto e, attraverso i rami degli alberi, fiammeggiava il sole come un carbone rosso e ardente e accendeva l'aria rendendola tutta un pulviscolo d'oro e di porpora. Il sole era così vicino e così luminoso che ogni cosa intorno pareva scomparire, ed esso solo rimaneva a tingere e a levigare la strada. I due furono come accecati, si volsero, e di colpo tutto si spense davanti a loro, si fece quieto e chiaro, piccolo e preciso. In un punto lontano, forse a un chilometro o poco più, il tramonto aveva isolato l'alto tronco di un pino, che ardeva in mezzo al verde come una candela in una camera scura ...
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sabato 4 gennaio 2014
Prima linea, di Carlos Gardini
Ha
studiato presso la Facoltà di
Filosofia e Lettere della UBA . Ha iniziato a scrivere all'età di
sedici anni, ma la sua carriera letteraria iniziata nel 1982, quando la sua
storia Frontline ha vinto il Book Club . Tra
i giurati erano Jorge Luis Borges e José
Donoso . Durante il 1981 e il 1982 ha scritto
la critica letteraria sulla rivista Pendolo
's , dove ha anche fatto diverse
traduzioni e pubblicato alcune storie.
Nel 1986 la University
of Iowa è stato insignito del
titolo di Honorary Fellow in
scrittura e ha ricevuto una
borsa di studio Fulbright per gli scrittori.Nel 1987 ha partecipato come
giurato al concorso storia di Jorge
Luis Borges , patrocinato
dalla Fondazione Konex e il National
Endowment for the Arts
Carlos
Gardini è considerato uno dei più importanti scrittori di fantascienza di
Argentina. Ha esplorato questo
genere sia come letteratura
fantasy e orrore .
Parte del suo lavoro è stato tradotto in inglese, francese,
giapponese e italiano.
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