martedì 3 dicembre 2013

Il giornalista, di Miriam Mafai

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La prima cosa che mi è saltata agli occhi è il titolo, “il giornalista”, coniugato al maschile. E dopo averlo letto mi è parso addirittura una contraddizione. Nel libro, attraverso il racconto degli avvenimenti e di come questi abbiano influito sulla trasformazione del giornale, ci racconta anche la storia di una giornalista, che guarda al mondo di cui parla con gli occhi di una donna. Questo mi avrebbe portato a intitolare questo breve lavoro “La giornalista”. Una contraddizione che probabilmente voleva essere un riferimento al lavoro in generale, cercando di pensarlo in modo neutro.

È curioso, però, che tutte le indicazioni universali siano al maschile. Quando si vuole parlare del  genere umano si dice “l’uomo”; quando si parla di attività si dice “il lavoro”, anch’esso al maschile, come l’impiego, e così via.

Ma questa è una digressione personale, anche se la Mafai non dimentica le percentuali ancora troppo sbilanciate a favore delle giornaliste. Tuttavia, Miriam Mafai, anche come donna educata a una visione marxista della realtà, non riesce a liberarsi di una propensione all’ottimismo della ragione e sottolinea come nelle giovani generazioni le giornaliste siano in una percentuale che si avvicina al 50%. Poi non dice in quante di esse avranno la possibilità di avere un’occupazione che le soddisfi da un punto di vista professionale..

Ho detto che dalla scrittura dell’autrice viene fuori la sua vita, il suo impegno, prima, come partigiana, poi, come funzionaria del PCI e, infine, come giornalista. Un approdo per molti versi accidentale, legato al lavoro del marito, anch’esso funzionario di alto grado del PCI, che venne mandato a Parigi. Questa coincidenza consente alla sua amica, direttrice di “Vie nuove”, un giornale del partito, di diventare corrispondente da Parigi. Denunciando il fatto di essere diventata giornalista grazie ad un aiuto esterno, la Mafai si lamenta come questa pratica sia ancora oggi largamente diffusa. Ma, poiché il libro sembra arrestarsi immediatamente prima di tangentopoli e dell’avvento di Berlusconi, ella si sente autorizzata a parla di successivo progresso per meritocrazia, mentre noi sappiamo che oggi la meritocrazia è riferita alla capacità dei giornalisti di essere supini al potente di turno, al politico che domina.

Sono interessanti altri due elementi, poiché altrimenti finisco per scrivere un saggio a mia volta (ispirato dalla splendida penna della Mafai): il cambiamento che porta con sé la bomba alla Banca dell’Agricoltura di Milano e le relazioni perverse che hanno le proprietà delle principali testate editoriali, un fenomeno che non è migliorato ma, anzi, reso ancor più perverso da Berlusconi.

Le bombe alla Banca dell’Agricoltura di Milano, che da inizio alla tragedia della politica degli opposti estremismi, giocata con spregiudicatezza dalla Democrazia Cristiana attraverso i servizi deviati, comportò la nascita di un giornalismo investigativo che riportasse alla luce la verità dei fatti, quantomeno l’intervento scientifico di depistaggio delle forze di intelligence, mentre i giornali dei cosiddetti moderati portano avanti una caccia alle streghe e sbattono in prima pagina il mostro anarchico Valpreda (gli ultimi avvenimenti sono minacciosamente simili e anche l’affermazione del ministro degli interni, che indica nelle lotte legate all’opposizione alla TAV la madre di tutte le minacce terroristiche, è inaudita sia nel linguaggio che nella sostanza). E quanto sia stato importante questo giornalismo, come anche le lotte operaie e studentesche di quel periodo, per difendere la nostra democrazia è proprio nel fatto che non sono stati mai compromessi di diritti fondamentali, salvo quello alla verità giudiziaria (quella politica e storica è stata smascherata da questa felice unione tra giornalismo libero e i partiti e movimenti politici e sindacali. Lo stesso fronte che ha consentito di battere il terrorismo delle brigate rosse o delle analoghe formazioni fasciste).

L’altro elemento è ancora più drammatico e ha visto aumentare progressivamente la commistione con la televisione e la dittatura dell’audience e dello share, che hanno significato contratti pubblicitari.

Insomma un libro piccolo che ha può dare un grande aiuto a comprendere la nostra storia.
 
 
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