La prima cosa che mi è saltata agli
occhi è il titolo, “il giornalista”, coniugato al maschile. E dopo averlo letto
mi è parso addirittura una contraddizione. Nel libro, attraverso il racconto
degli avvenimenti e di come questi abbiano influito sulla trasformazione del
giornale, ci racconta anche la storia di una giornalista, che guarda al mondo
di cui parla con gli occhi di una donna. Questo mi avrebbe portato a intitolare
questo breve lavoro “La giornalista”. Una contraddizione che probabilmente voleva
essere un riferimento al lavoro in generale, cercando di pensarlo in modo
neutro.
È curioso, però, che tutte le
indicazioni universali siano al maschile. Quando si vuole parlare del
genere umano si dice “l’uomo”; quando si parla di attività si dice “il lavoro”,
anch’esso al maschile, come l’impiego, e così via.
Ma questa è una digressione
personale, anche se la Mafai non dimentica le percentuali ancora troppo
sbilanciate a favore delle giornaliste. Tuttavia, Miriam Mafai, anche come
donna educata a una visione marxista della realtà, non riesce a liberarsi di
una propensione all’ottimismo della ragione e sottolinea come nelle giovani
generazioni le giornaliste siano in una percentuale che si avvicina al 50%. Poi
non dice in quante di esse avranno la possibilità di avere un’occupazione che
le soddisfi da un punto di vista professionale..
Ho detto che dalla scrittura
dell’autrice viene fuori la sua vita, il suo impegno, prima, come partigiana,
poi, come funzionaria del PCI e, infine, come giornalista. Un approdo per molti
versi accidentale, legato al lavoro del marito, anch’esso funzionario di alto
grado del PCI, che venne mandato a Parigi. Questa coincidenza consente alla sua
amica, direttrice di “Vie nuove”, un giornale del partito, di diventare
corrispondente da Parigi. Denunciando il fatto di essere diventata giornalista
grazie ad un aiuto esterno, la Mafai si lamenta come questa pratica sia ancora
oggi largamente diffusa. Ma, poiché il libro sembra arrestarsi immediatamente
prima di tangentopoli e dell’avvento di Berlusconi, ella si sente autorizzata a
parla di successivo progresso per meritocrazia, mentre noi sappiamo che oggi la
meritocrazia è riferita alla capacità dei giornalisti di essere supini al
potente di turno, al politico che domina.
Sono interessanti altri due
elementi, poiché altrimenti finisco per scrivere un saggio a mia volta
(ispirato dalla splendida penna della Mafai): il cambiamento che porta con sé
la bomba alla Banca dell’Agricoltura di Milano e le relazioni perverse che
hanno le proprietà delle principali testate editoriali, un fenomeno che non è
migliorato ma, anzi, reso ancor più perverso da Berlusconi.
Le bombe alla Banca
dell’Agricoltura di Milano, che da inizio alla tragedia della politica degli
opposti estremismi, giocata con spregiudicatezza dalla Democrazia Cristiana
attraverso i servizi deviati, comportò la nascita di un giornalismo
investigativo che riportasse alla luce la verità dei fatti, quantomeno
l’intervento scientifico di depistaggio delle forze di intelligence, mentre i
giornali dei cosiddetti moderati portano avanti una caccia alle streghe e
sbattono in prima pagina il mostro anarchico Valpreda (gli ultimi avvenimenti
sono minacciosamente simili e anche l’affermazione del ministro degli interni,
che indica nelle lotte legate all’opposizione alla TAV la madre di tutte le
minacce terroristiche, è inaudita sia nel linguaggio che nella sostanza). E
quanto sia stato importante questo giornalismo, come anche le lotte operaie e
studentesche di quel periodo, per difendere la nostra democrazia è proprio nel
fatto che non sono stati mai compromessi di diritti fondamentali, salvo quello
alla verità giudiziaria (quella politica e storica è stata smascherata da
questa felice unione tra giornalismo libero e i partiti e movimenti politici e
sindacali. Lo stesso fronte che ha consentito di battere il terrorismo delle
brigate rosse o delle analoghe formazioni fasciste).
L’altro elemento è ancora più
drammatico e ha visto aumentare progressivamente la commistione con la
televisione e la dittatura dell’audience e dello share, che hanno significato
contratti pubblicitari.
Insomma un libro piccolo che ha può
dare un grande aiuto a comprendere la nostra storia.
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