Un libro su una piccola comunità di borghesi, dominata da un avvocato
che viene dalla Francia mediterranea, Théodose de La Peyrade, il solito furbone
meridionale. L’avvocato costruisce carriere politiche ottenendo, in cambio, una
bella ragazza ingenua e sprovveduta ma ricca di dote. Sullo sfondo c’è il
marito Thuillier che domina una povera moglie che gli ha dato eredi, mentre la
ragazza è nata da una relazione con la bella Flavie, mentre la regista di tutto
è la sorella del marito, Brigitte.
Tutto sembra andare per il verso
giusto – Thuillier si sta avviando alla brillante carriera politica creata da
Théodose – quando entrano in gioco un orrendo usuraio – definito il banchiere
dei poveri – e un ambiguo cancelliere che tengono in mano l’avvocato pieno di debiti.
Qui la trama si ingarbuglia, con Théodose che reagisce colpo su colpo, cercando
di portare i suoi nemici alla rovina.
C’è anche una scatola piena di
monete d’oro ritrovata dall’usuraio sotto il letto di un vecchio morente e poi
il romanzo resta incompiuto. Oggi il libro rimane interessante non per la
denuncia dell’ambiente dei piccoli borghesi che hanno soppiantato la vecchia
borghesia, né per la tipizzazione, comunque riuscita, dei vari personaggi: il
brillante avvocato imbroglione, il pensionato statale che tenta l’avventura
politica, la sorella di lui grande organizzatrice di tutto, la ragazza ignara,
l’usuraio, più una pletora di personaggi di contorno, compresa la famiglia
Phellion, unica macchia di ideali sinceri e onesti.
Quello che colpisce ne I piccoli borghesi è la descrizione minuta,
quasi maniacale, dei meccanismi economici. Cambiali che passano di mano, debiti
che si accumulano, compravendite di palazzi con speculazioni da Roma anni
cinquanta, resoconti notarili, note catastali, tutti i conti familiari con
informazioni precise su attività e passività. Il capitalismo, sembra dirci
Balzac, è prima di tutto contabilità.
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