mercoledì 11 dicembre 2013

C'era una volta, di Luigi Capuana

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Può risultare di fatto quanto meno singolare proporre a un pubblico di lettori adulti “C’era una volta” di Luigi Capuana: nel titolo e nei contenuti né più e né meno che un bel libro di fiabe, raccontate e trascritte nel linguaggio classico di questo genere letterario.
Però proprio la riflessione sul mondo della fiaba e, in parallelo, sull’autore di questo specifico testo, porta ad alcune considerazioni interessanti. La fiaba è, per definizione, il regno della fantasia, un mondo in cui i personaggi e le vicende si intrecciano e si trasformano in modo misterioso e imprevedibile. Capuana invece è uno dei maggiori rappresentanti del verismo letterario e si è accostato al mondo delle favole da studioso, analizzandole nella tradizione della sua terra siciliana. Perciò quando pubblica “C’era una volta” l’amico Verga dà per scontato che si tratti di una accurata trascrizione delle fiabe del mondo contadino, trasmesse oralmente da una generazione all’altra.
E invece no: Capuana chiarisce che tutte le sue storie sono originali, inventate di sana pianta, con un gusto e una benevola ironia che il lettore accorto riesce man mano a riconoscere fra le righe di una scrittura pienamente rispettosa dello stile fiabesco tradizionale. E c’è di più: Giulio Cattaneo osserva: “Le fiabe rimangono forse l’opera più felice di Capuana, come una prosa svelta, semplificata al massimo, ricche di ritornello, cadenze e cantilene, hanno un incanto singolare e una originale cifra stilistica.”(1)
Capuana pubblica “C’era una volta” nel 1882, e più tardi, nel 1894, “Il Raccontafiabe”; da allora,i l primo approccio alla lettura e, conseguentemente, anche alla letteratura di varie generazioni di italiani avviene in larga parte proprio attraverso queste pagine.
Il motivo della singolare sintonia fra l’autore e i variopinti personaggi dei suoi racconti sta forse nelle considerazioni sulla fiaba che propone a sua volta, circa un secolo più tardi, Italo Calvino: “la fiaba è vera” dice Calvino, perché l’insieme delle storie che costituiscono il suo patrimonio è “una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi.”(2)
Forse è questa più profonda verità quello che Capuana intuisce nelle storie che la sua fantasia gli va suggerendo a partire dal classico incipit “c’era una volta….”. A sostegno di questa ipotesi possiamo considerare il racconto iniziale della sua prima raccolta, la storia di “Spera di sole”.
La protagonista è una piccola fornaia, chiamata Tizzoncino, povera, sporca, spettinata e fuligginosa. Eppure la mamma le predice che diventerà regina; e così avviene, in seguito a varie vicende, perché quando il principe viene relegato in una misteriosa prigionia l’unico bene che permette di riscattarlo è proprio la pagnotta che solo Tizzoncino riesce a preparare in modo perfetto. E a questo punto si scopre che la piccola fornaia è, in realtà, bellissima: una “spera di sole”, appunto, capace di guadagnare a primo sguardo il cuore dello stesso principe.
Cosa troviamo di vero dietro queste immagini? In primo luogo il pane, l’alimento più comune e senza pretese, che viene riscoperto come un simbolo di casa, di vita buona, di affetti sicuri; e perciò diventa il lasciapassare che permette al principe di riprendere il suo posto alla reggia e di conseguenza alla guida del suo popolo.
Poi c’è la bellezza che Tizzoncino nasconde dietro la fuliggine: una bellezza collegata al “fare per gli altri” e quindi particolarmente preziosa. Ancora prima della trasformazione finale, lungo lo snodarsi del racconto, ne indoviniamo il segreto constatando che la protagonista è sempre allegra, colora con le sue risate il succedersi degli avvenimenti anche nelle occasioni più sfavorevoli.
L’invito è dunque a leggere la fiaba e le altre che seguono; ma anche a rileggere in questa chiave le nostre faccende più comuni, nell’intento di scoprire anche noi qualcuna delle ricchezze che vi sono nascoste.

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