domenica 26 gennaio 2014

Alla ricerca della verecondia, di Ligi Lodi


LODI, Luigi. - Nacque a Crevalcore (Bologna) il 2 sett. 1856, da Filippo, medico condotto, e da Luigia Marti. Compiuti studi regolari, si laureò in lettere e in giurisprudenza all'Università di Bologna.
Ancora studente liceale, aveva preso a collaborare al giornale La Voce del popolo che, diretto dal garibaldino F. Pais, si stampava a Bologna. Sul medesimo periodico scriveva G. Carducci, docente di eloquenza italiana presso l'Ateneo bolognese, dove il L. lo aveva conosciuto. Imbevuto di entusiasmi risorgimentali, Carducci partecipava in maniera attiva alla vita politica del capoluogo, così da diventare punto di riferimento per i giovani che si ispiravano agli ideali progressisti. In questo contesto nacque con il L. un rapporto di simpatia, stima e poi amicizia: Carducci gli fu accanto allorché il L. prese a collaborare, nel 1877, con Pagine sparse - rivista di letteratura, filologia e storia che un anno dopo mutò la testata in Preludio - e quando, nel 1881, fece uscire, insieme con L. Illica, il Don Chisciotte, di cui Carducci dettò il programma.
Il giornale divenne portavoce dell'Associazione democratica bolognese che, vicina ai liberali progressisti, riscuoteva anche le simpatie dei radicali, dei repubblicani e dei nascenti circoli operai. Ciò nonostante, non ebbe una vita economica tranquilla, tanto che più volte il L. si rivolse a Carducci per sollecitare un suo articolo o dei versi che ne risollevassero le sorti, fino a pregarlo di voler garantire, presso i tipografi, la somma di 700 lire, così da indurli a continuarne la stampa.
Carducci ricordò, in un suo celebre scritto, come fosse stato il L., nel 1878, a suggerirgli di scrivere l'ode alla regina Margherita, in occasione della visita dei sovrani a Bologna: erano versi destinati a scatenare contrasti e a divenire famosi.
Fra maestro e allievo si stabilì, in breve, una tale comunanza di amicizia e di interessi politici, che il L. poté offrire, nel 1882, a Carducci - che però rifiutò - la direzione del Fanfulla della domenica dopo l'abbandono di F. Martini; e soprattutto poté rivolgergli un accorato appello, nel gennaio del 1883, perché interponesse i suoi buoni uffici, presso amici romani o massoni, per aiutarlo a trovare un lavoro lontano da Bologna, delle cui lotte municipali avvertiva, ormai, tutta l'angustia.
Carducci fece subito ricorso a L.A. Vassallo, il quale dirigeva, a Roma, il Capitan Fracassa, invitandolo a chiamare il suo protetto nella redazione del giornale o in altro similare e, nel contempo, scrisse a F. Napoli, coproprietario del medesimo quotidiano, manifestandogli la sua stima nel Lodi. Sulle prime queste parole non ebbero riscontro: il L. fu accolto a Roma alla corte dell'editore A. Sommaruga, che egli conosceva da tempo e che gli offrì, nel giugno del 1883, l'incarico di redattore capo de LaDomenica letteraria.
La rivista attraversava un momento difficile, dovuto alla concorrenza della ben più brillante e mondana Cronaca bizantina, edita dallo stesso Sommaruga; né il L. riuscì nella difficile impresa di risollevarne le fortune. La gestì in maniera onorevole, dandole un familiare tono di buon senso che rispondeva alle attese del lettore medio. In una circostanza, tuttavia, insorse, e fu quando G. Chiarini accusò G. D'Annunzio di avere utilizzato, nell'Intermezzo di rime, "i lubrici fantasmi della pervertita sua mente in una specie di immondezzaio poetico" (Alla ricerca della verecondia, Roma 1884, p. 3). Il L. prese le difese del poeta, ribadendo con forza le ragioni dell'indipendenza dell'artista dalla morale.
Nel frattempo, le richieste di Carducci andarono a buon fine e, nell'estate del 1883, il L. fu chiamato a lavorare presso la redazione del Capitan Fracassa. Il giornale - fondato tre anni prima, con pochi mezzi, da G. Minervini, G. Turco, F. Napoli e L.A. Vassallo - era al culmine della sua diffusione. Vendeva 20.000 copie e godeva del favore crescente dei lettori, che ne apprezzavano la spigliatezza grafica, l'indipendenza di giudizio e l'equilibrato dosaggio di politica, cultura e mondanità.
Si distingueva, nel panorama grigio della stampa capitolina, per una novità clamorosa: era illustrato con vignette e ritratti satirici ("il pupazzetto", come furono definiti), che gli davano un tono scanzonato. Quando la fotografia muoveva i primi passi e la produzione grafica era legata a procedimenti costosi, il direttore Vassallo aveva escogitato un sistema semplice di xilografia che permetteva di commentare, in maniera ironica, i fatti del giorno o di rappresentare alcuni personaggi della vita pubblica. Nato con un programma di sinistra, il Capitan Fracassa fu ostile ad A. Depretis e alla sua politica trasformista, che sembrava sfilacciare la fibra morale del Paese, e sostenne la necessità di costruire una salda democrazia parlamentare nel rispetto, fino allo scrupolo, della legalità. Sulla base di queste premesse si dichiarò ostile all'impresa eritrea, decisa dal governo senza una stima degli obiettivi e, soprattutto, non tenendo in alcun conto le necessità di bilancio.
Il L. non ebbe alcuna difficoltà a inserirsi - con lo pseudonimo Il Saraceno, che poi mantenne sempre - nella compagine del giornale, così da divenirne una firma autorevole. Forte di questa esperienza, fondò nel dicembre del 1887, insieme con un gruppo di amici che comprendeva scrittori noti come Vassallo, L. Bertelli, U. Fleres, E. Faelli e C. Pascarella, oltre la moglie, Olga Ossani, meglio conosciuta con lo pseudonimo di Febea (nonché probabile ispiratrice della Elena Muti del dannunziano Piacere), il Don Chisciotte della Mancia, di cui fu nominato direttore.
Il giornale, che riprendeva il programma dettato da Carducci per il Don Chisciotte bolognese, nasceva nel momento in cui F. Crispi, divenuto nell'agosto presidente del Consiglio, cominciava a impensierire i democratici italiani: il mancato rinnovo del trattato commerciale con la Francia e la sua visita, non richiesta, al cancelliere tedesco O. von Bismarck avevano confermato la scelta triplicista del governo e alimentato preoccupazioni di possibili conseguenze deleterie in economia. Il pugno di ferro usato con gli operai romani, scesi in piazza per protestare contro la crisi edilizia, inoltre, rivelava una tendenza autoritaria, che urtava i progressisti italiani e faceva intravedere nubi minacciose sul sistema costituzionale, messo in discussione da un esecutivo di stampo "prussiano". Il giornale, dopo un breve periodo di cauta attesa, prese a guardare con fiducia alla figura carismatica del leader radicale F. Cavallotti, alla cui opera in difesa della legalità, diede sostegno e diffusione. Inoltre prese posizione contro un impegno coloniale che allargasse la presenza italiana in Africa e fu fautore della riduzione delle spese militari per destinare il risparmio a uso interno.
Non potendo piegare il giornale alla sua linea, Crispi decise di comprarlo surrettiziamente, per mezzo di intermediari, usando i fondi segreti di cui disponeva la presidenza del Consiglio. Quando il L. e i suoi amici scoprirono, quasi per caso, l'operazione, abbandonarono l'impresa pur di salvare la loro indipendenza.
Negli anni successivi il L. diede vita a Il Torneo che, uscito il 5 maggio 1892, durò pochi mesi; nel gennaio del 1893, affiancato dalla moglie, diede avvio a La Nuova Rassegna, settimanale che si proponeva di contribuire alla formazione della coscienza collettiva e in cui le riflessioni sulla politica e sull'economia si alternavano alle critiche d'arte, alle cronache teatrali e a contributi narrativi e poetici. Quell'esperienza consentì a letterati e studiosi un proficuo confronto: D'Annunzio vi stampò la novella Il primogenito, anticipazione del Trionfo della morte, e vi scrisse di finanza il giovane F.S. Nitti, che portò anche l'esperienza di studiosi stranieri suoi amici.
Nel contempo il L. progettava con la moglie Olga un nuovo quotidiano, Il Don Chisciotte di Roma, il cui primo numero fu nelle edicole il 15 ott. 1893.
Quando il giornale apparve, l'Italia era squassata dallo scandalo della Banca romana: il 20 dic. 1892 N. Colaianni aveva denunciato alla Camera dei deputati le malversazioni compiute dal governatore B. Tanlongo, con la connivenza di alcuni autorevoli uomini politici e di governo. L'accusa del deputato siciliano aveva scoperchiato d'improvviso, davanti all'opinione pubblica attonita, un verminaio che sembrava spiegare le cause di una vita parlamentare misera e immobile. La battaglia per il rinnovamento del Paese diede a Il Don Chisciotte di Roma notorietà e ne favorì la diffusione.
Crispi, succeduto nel frattempo a G. Giolitti, prese a governare in maniera autoritaria, senza tenere in gran conto le garanzie previste dallo Statuto e, seguendo i propri fantasmi, giunse perfino a invocare, parlando a Napoli il 10 sett. 1894, un'alleanza fra trono e altare per battere le forze sovversive dell'ordine politico e sociale. Qualche mese dopo, in dicembre, Giolitti depositò presso la presidenza della Camera dei deputati le carte in suo possesso relative allo scandalo della Banca romana. I documenti chiarivano gli equivoci rapporti che Crispi aveva mantenuto con l'istituto di credito e da ciò nacque il fondato sospetto che egli ne avesse ricavato ingenti guadagni. Di fronte alla richiesta di limpidezza morale che saliva dal Paese, il presidente del Consiglio agì con disprezzo verso chi, come Cavallotti, invocava il rispetto della costituzione. Il Don Chisciotte di Roma si pose ancora una volta, senza alcuna riserva, in sintonia con il leader radicale, denunciando la megalomania imperialista di Crispi e il pericolo che egli costituiva per la democrazia nel Paese. Fu in questo frangente che giunsero alla rottura i rapporti tra il L. e Carducci: questi, legato al presidente del Consiglio sia per l'appartenenza alla fratellanza massonica, sia nella convinzione che le ragioni dell'unità dello Stato prevalessero sulla incipiente "questione sociale", ne difese la figura e l'opera, giungendo a paragonarlo a Mazzini, Vittorio Emanuele II e Garibaldi. I suoi interventi parvero tradire le idee democratiche professate per un'intera vita: toccò al L. denunciare tale contraddizione.
Per di più, nel dicembre del 1895, andando sposa la figlia di Crispi, Carducci le dedicò una composizione il cui contenuto suonava a condanna di quanti criticavano l'operato del padre e a elogio dei suoi trascorsi di patriota. Ebbe buon gioco Il Don Chisciotte di Roma a rimproverargli, commentando un duro giudizio di Cavallotti, di aver ridestato la sua musa, che taceva da un pezzo, solo per blandire la vanità d'un prepotente e a ricordargli che avrebbe fatto bene a commuoversi piuttosto per la figlia di G. De Felice Giuffrida, alla quale non era concesso di rivedere il padre ingiustamente detenuto. Non ci volle altro per far divampare l'ira di Carducci, che nella Gazzetta dell'Emilia rispose violentemente dimenticando il pluriennale affetto per l'allievo. Ne scaturì un duro scambio di articoli con il L., che non celò l'amarezza per le posizioni del Carducci.
Dalla successiva "crisi di fine secolo", il giornale del L. uscì rafforzato nelle sue strutture e nel favore dei lettori, tanto che nel dicembre del 1899 si fuse con un altro quotidiano romano, Il Fanfulla, dando origine a Il Giorno, un giornale dai risvolti grafici innovativi, come la stampa di pagine a colori, e che ospitò alcune odi di D'Annunzio destinate a confluire nel secondo libro delle Laudi. Il foglio, che si definiva schiettamente liberale e libero, ebbe il pregio di intuire, fra l'altro, che il Paese aveva necessità di una svolta decisa in politica interna e di cogliere tutta la novità della proposta politica di Giolitti, che aveva operato una scelta di campo in favore di una democrazia partecipativa. "Chi vuole lo Stato per una classe" -chiosava il giornale - "sta con l'onorevole Sonnino; chi crede non possa aver forza durevole e benefica che nel consentimento del maggior numero di persone, va con l'on. Giolitti" (Il Giorno, 24 sett. 1900).
Così ben avviato Il Giorno sembrava destinato a lunga vita. Il 31 dic. 1900, invece, una nota avvisava della sua fusione con La Tribuna: dal momento che il senatore L. Roux, così recitava la nota, aveva assunto la direzione del giornale confratello, diveniva superflua la coesistenza, se non la concorrenza, nella stessa città, di due periodici entrambi ispirati a una politica liberale. È probabile che i motivi d'opportunità invocati fossero davvero all'origine della decisione, ma nello scritto si accennava anche a sacrifici finanziari eccessivi: è pur vero che i giornali si venivano costituendo in aziende, non più affidate alla sola "benevolenza dei lettori", spesso insufficiente a coprirne le spese.
Il L. tornò alla guida di un periodico il 15 ott. 1905, allorché comparve nelle edicole La Vita.
Il nuovo quotidiano era stato voluto dalla direzione del partito radicale e anche se da questa non dovette ricevere mai, per quanto è dato sapere, alcun aiuto economico, ne rispecchiò con sufficiente fedeltà gli umori, sostenendo soprattutto la componente moderata. A partire dal 1909 il giornale poté contare su una maggiore stabilità finanziaria. Alcuni autorevoli esponenti radicali, quali E. Sacchi, il segretario amministrativo G. Amici, i deputati A. Giovannelli e D. Zaccagnino, in possesso di un cospicuo patrimonio personale, lo comprarono; l'acquisto fu concluso a titolo privato e con il concorso anche di persone di diverso orientamento politico.
Il giornale rimase, se non portavoce ufficiale, certo abbastanza vicino ai radicali, interpretando la linea politica del partito e intervenendo con suggerimenti e critiche. Certo è che esso sostenne gli interessi dei ceti medi, che di quel partito costituivano la spina dorsale e la base, e s'impegnò nella difesa dello Stato laico, battendosi affinché fossero introdotte riforme quali l'abolizione dell'insegnamento religioso nelle scuole elementari, la precedenza del matrimonio civile, il divorzio e, più in generale, la separazione fra Stato e Chiesa e la non ingerenza di questa in quello. Particolare sostegno il giornale dette alla campagna in favore del voto alle donne, di cui fu promotrice e anima Olga Ossani. Sul piano elettorale, infine, il quotidiano appoggiò l'alleanza delle forze laiche e l'unione, quindi, di radicali, repubblicani e socialisti nei "blocchi popolari". Tali riforme, per cui il L. si batté nel corso di un decennio non andarono, com'è noto, a buon fine. Il bilancio di questo lungo impegno si chiuse con una serie di sconfitte, le quali significarono, anche, la sconfessione di un'Italia migliore. È probabile, dunque, che la guerra, una volta scoppiata, gli apparisse, al pari degli altri interventisti democratici, l'occasione per rimuovere, dal cuore dell'Europa, il potere di un'antica nemica, l'Austria, sugli Italiani irredenti e, nello stesso tempo, il centro dell'oscurantismo continentale. Dal momento che La Vitaassunse, invece, un indirizzo neutralista, il L. l'abbandonò nel 1914.
Negli anni successivi il L. entrò a far parte della famiglia del Giornale d'Italia e collaborò a molte delle sue iniziative editoriali. Del quotidiano condivise la visione del fascismo come una forza giovane, nata dalla guerra, che aveva il compito di salvare l'Italia dall'urto di orde brutali, annebbiate dalla propaganda sovversiva, per restituirlo a una guida moderata. Se la democrazia liberale, in breve, non era riuscita per propria debolezza e per incapacità dei capi ad avviare il Paese sulla strada della modernità, era necessario cercare altrove risposte a domande rimaste per troppo tempo inevase. La delusione per le mancate riforme portò dunque il L. a ritenere fallito il sistema che avrebbe dovuto realizzarle. Va aggiunto che egli non trasse alcun vantaggio dal nuovo regime.

Il L. morì a Roma il 22 febbr. 1933, dopo una lunga malattia, ormai quasi dimenticato da tutti.

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