LODI, Luigi. - Nacque a Crevalcore (Bologna) il 2
sett. 1856, da Filippo, medico condotto, e da Luigia Marti. Compiuti studi
regolari, si laureò in lettere e in giurisprudenza all'Università di Bologna.
Ancora
studente liceale, aveva preso a collaborare al giornale La
Voce del popolo che, diretto dal garibaldino F. Pais, si stampava a
Bologna. Sul medesimo periodico scriveva G. Carducci, docente di eloquenza
italiana presso l'Ateneo bolognese, dove il L. lo aveva conosciuto. Imbevuto di
entusiasmi risorgimentali, Carducci partecipava in maniera attiva alla vita
politica del capoluogo, così da diventare punto di riferimento per i giovani
che si ispiravano agli ideali progressisti. In questo contesto nacque con il L.
un rapporto di simpatia, stima e poi amicizia: Carducci gli fu accanto allorché
il L. prese a collaborare, nel 1877, con Pagine sparse - rivista di letteratura, filologia e
storia che un anno dopo mutò la testata in Preludio - e quando, nel 1881, fece uscire,
insieme con L. Illica, il Don Chisciotte, di cui
Carducci dettò il programma.
Il
giornale divenne portavoce dell'Associazione democratica bolognese che, vicina
ai liberali progressisti, riscuoteva anche le simpatie dei radicali, dei
repubblicani e dei nascenti circoli operai. Ciò nonostante, non ebbe una vita
economica tranquilla, tanto che più volte il L. si rivolse a Carducci per
sollecitare un suo articolo o dei versi che ne risollevassero le sorti, fino a
pregarlo di voler garantire, presso i tipografi, la somma di 700 lire, così da
indurli a continuarne la stampa.
Carducci
ricordò, in un suo celebre scritto, come fosse stato il L., nel 1878, a
suggerirgli di scrivere l'ode alla regina Margherita, in occasione della visita
dei sovrani a Bologna: erano versi destinati a scatenare contrasti e a divenire
famosi.
Fra
maestro e allievo si stabilì, in breve, una tale comunanza di amicizia e di
interessi politici, che il L. poté offrire, nel 1882, a Carducci - che però
rifiutò - la direzione del Fanfulla della domenica dopo l'abbandono di F. Martini; e
soprattutto poté rivolgergli un accorato appello, nel gennaio del 1883, perché
interponesse i suoi buoni uffici, presso amici romani o massoni, per aiutarlo a
trovare un lavoro lontano da Bologna, delle cui lotte municipali avvertiva,
ormai, tutta l'angustia.
Carducci
fece subito ricorso a L.A. Vassallo, il quale dirigeva, a Roma, il Capitan
Fracassa, invitandolo a chiamare il suo protetto nella redazione
del giornale o in altro similare e, nel contempo, scrisse a F. Napoli,
coproprietario del medesimo quotidiano, manifestandogli la sua stima nel Lodi.
Sulle prime queste parole non ebbero riscontro: il L. fu accolto a Roma alla
corte dell'editore A. Sommaruga, che egli conosceva da tempo e che gli offrì,
nel giugno del 1883, l'incarico di redattore capo de LaDomenica
letteraria.
La
rivista attraversava un momento difficile, dovuto alla concorrenza della ben
più brillante e mondana Cronaca bizantina, edita
dallo stesso Sommaruga; né il L. riuscì nella difficile impresa di risollevarne
le fortune. La gestì in maniera onorevole, dandole un familiare tono di buon
senso che rispondeva alle attese del lettore medio. In una circostanza,
tuttavia, insorse, e fu quando G. Chiarini accusò G. D'Annunzio di avere
utilizzato, nell'Intermezzo di
rime, "i lubrici fantasmi della pervertita sua mente in una
specie di immondezzaio poetico" (Alla
ricerca della verecondia, Roma 1884, p. 3). Il L. prese le difese
del poeta, ribadendo con forza le ragioni dell'indipendenza dell'artista dalla
morale.
Nel
frattempo, le richieste di Carducci andarono a buon fine e, nell'estate del
1883, il L. fu chiamato a lavorare presso la redazione del Capitan
Fracassa. Il giornale - fondato tre anni prima, con pochi mezzi, da
G. Minervini, G. Turco, F. Napoli e L.A. Vassallo - era al culmine della sua
diffusione. Vendeva 20.000 copie e godeva del favore crescente dei lettori, che
ne apprezzavano la spigliatezza grafica, l'indipendenza di giudizio e
l'equilibrato dosaggio di politica, cultura e mondanità.
Si
distingueva, nel panorama grigio della stampa capitolina, per una novità
clamorosa: era illustrato con vignette e ritratti satirici ("il
pupazzetto", come furono definiti), che gli davano un tono scanzonato.
Quando la fotografia muoveva i primi passi e la produzione grafica era legata a
procedimenti costosi, il direttore Vassallo aveva escogitato un sistema
semplice di xilografia che permetteva di commentare, in maniera ironica, i
fatti del giorno o di rappresentare alcuni personaggi della vita pubblica. Nato
con un programma di sinistra, il Capitan Fracassa fu ostile ad A. Depretis e alla sua
politica trasformista, che sembrava sfilacciare la fibra morale del Paese, e
sostenne la necessità di costruire una salda democrazia parlamentare nel
rispetto, fino allo scrupolo, della legalità. Sulla base di queste premesse si
dichiarò ostile all'impresa eritrea, decisa dal governo senza una stima degli
obiettivi e, soprattutto, non tenendo in alcun conto le necessità di bilancio.
Il L. non
ebbe alcuna difficoltà a inserirsi - con lo pseudonimo Il Saraceno, che poi
mantenne sempre - nella compagine del giornale, così da divenirne una firma
autorevole. Forte di questa esperienza, fondò nel dicembre del 1887, insieme
con un gruppo di amici che comprendeva scrittori noti come Vassallo, L.
Bertelli, U. Fleres, E. Faelli e C. Pascarella, oltre la moglie, Olga Ossani,
meglio conosciuta con lo pseudonimo di Febea (nonché probabile ispiratrice
della Elena Muti del dannunziano Piacere), il Don
Chisciotte della Mancia, di cui fu nominato direttore.
Il
giornale, che riprendeva il programma dettato da Carducci per il Don
Chisciotte bolognese, nasceva nel momento in cui F. Crispi,
divenuto nell'agosto presidente del Consiglio, cominciava a impensierire i
democratici italiani: il mancato rinnovo del trattato commerciale con la
Francia e la sua visita, non richiesta, al cancelliere tedesco O. von Bismarck
avevano confermato la scelta triplicista del governo e alimentato
preoccupazioni di possibili conseguenze deleterie in economia. Il pugno di
ferro usato con gli operai romani, scesi in piazza per protestare contro la
crisi edilizia, inoltre, rivelava una tendenza autoritaria, che urtava i
progressisti italiani e faceva intravedere nubi minacciose sul sistema
costituzionale, messo in discussione da un esecutivo di stampo "prussiano".
Il giornale, dopo un breve periodo di cauta attesa, prese a guardare con
fiducia alla figura carismatica del leader radicale F. Cavallotti, alla cui
opera in difesa della legalità, diede sostegno e diffusione. Inoltre prese
posizione contro un impegno coloniale che allargasse la presenza italiana in
Africa e fu fautore della riduzione delle spese militari per destinare il
risparmio a uso interno.
Non
potendo piegare il giornale alla sua linea, Crispi decise di comprarlo
surrettiziamente, per mezzo di intermediari, usando i fondi segreti di cui
disponeva la presidenza del Consiglio. Quando il L. e i suoi amici scoprirono,
quasi per caso, l'operazione, abbandonarono l'impresa pur di salvare la loro
indipendenza.
Negli
anni successivi il L. diede vita a Il Torneo che, uscito il 5 maggio 1892, durò
pochi mesi; nel gennaio del 1893, affiancato dalla moglie, diede avvio a La
Nuova Rassegna, settimanale che si proponeva di contribuire alla
formazione della coscienza collettiva e in cui le riflessioni sulla politica e
sull'economia si alternavano alle critiche d'arte, alle cronache teatrali e a
contributi narrativi e poetici. Quell'esperienza consentì a letterati e
studiosi un proficuo confronto: D'Annunzio vi stampò la novella Il
primogenito, anticipazione del Trionfo della morte, e vi
scrisse di finanza il giovane F.S. Nitti, che portò anche l'esperienza di
studiosi stranieri suoi amici.
Nel
contempo il L. progettava con la moglie Olga un nuovo quotidiano, Il
Don Chisciotte di Roma, il cui primo numero fu nelle edicole il 15
ott. 1893.
Quando il
giornale apparve, l'Italia era squassata dallo scandalo della Banca romana: il
20 dic. 1892 N. Colaianni aveva denunciato alla Camera dei deputati le
malversazioni compiute dal governatore B. Tanlongo, con la connivenza di alcuni
autorevoli uomini politici e di governo. L'accusa del deputato siciliano aveva
scoperchiato d'improvviso, davanti all'opinione pubblica attonita, un verminaio
che sembrava spiegare le cause di una vita parlamentare misera e immobile. La
battaglia per il rinnovamento del Paese diede a Il
Don Chisciotte di Roma notorietà
e ne favorì la diffusione.
Crispi,
succeduto nel frattempo a G. Giolitti, prese a governare in maniera
autoritaria, senza tenere in gran conto le garanzie previste dallo Statuto e,
seguendo i propri fantasmi, giunse perfino a invocare, parlando a Napoli il 10
sett. 1894, un'alleanza fra trono e altare per battere le forze sovversive
dell'ordine politico e sociale. Qualche mese dopo, in dicembre, Giolitti
depositò presso la presidenza della Camera dei deputati le carte in suo
possesso relative allo scandalo della Banca romana. I documenti chiarivano gli
equivoci rapporti che Crispi aveva mantenuto con l'istituto di credito e da ciò
nacque il fondato sospetto che egli ne avesse ricavato ingenti guadagni. Di
fronte alla richiesta di limpidezza morale che saliva dal Paese, il presidente
del Consiglio agì con disprezzo verso chi, come Cavallotti, invocava il
rispetto della costituzione. Il Don Chisciotte di Roma si pose ancora una volta, senza alcuna
riserva, in sintonia con il leader radicale, denunciando la megalomania
imperialista di Crispi e il pericolo che egli costituiva per la democrazia nel
Paese. Fu in questo frangente che giunsero alla rottura i rapporti tra il L. e
Carducci: questi, legato al presidente del Consiglio sia per l'appartenenza
alla fratellanza massonica, sia nella convinzione che le ragioni dell'unità
dello Stato prevalessero sulla incipiente "questione sociale", ne
difese la figura e l'opera, giungendo a paragonarlo a Mazzini, Vittorio
Emanuele II e Garibaldi. I suoi interventi parvero tradire le idee democratiche
professate per un'intera vita: toccò al L. denunciare tale contraddizione.
Per di
più, nel dicembre del 1895, andando sposa la figlia di Crispi, Carducci le
dedicò una composizione il cui contenuto suonava a condanna di quanti
criticavano l'operato del padre e a elogio dei suoi trascorsi di patriota. Ebbe
buon gioco Il Don Chisciotte di Roma a rimproverargli, commentando un duro
giudizio di Cavallotti, di aver ridestato la sua musa, che taceva da un pezzo,
solo per blandire la vanità d'un prepotente e a ricordargli che avrebbe fatto
bene a commuoversi piuttosto per la figlia di G. De Felice Giuffrida, alla
quale non era concesso di rivedere il padre ingiustamente detenuto. Non ci
volle altro per far divampare l'ira di Carducci, che nella Gazzetta
dell'Emilia rispose
violentemente dimenticando il pluriennale affetto per l'allievo. Ne scaturì un
duro scambio di articoli con il L., che non celò l'amarezza per le posizioni
del Carducci.
Dalla
successiva "crisi di fine secolo", il giornale del L. uscì rafforzato
nelle sue strutture e nel favore dei lettori, tanto che nel dicembre del 1899
si fuse con un altro quotidiano romano, Il Fanfulla, dando origine a Il
Giorno, un giornale dai risvolti grafici innovativi, come la stampa
di pagine a colori, e che ospitò alcune odi di D'Annunzio destinate a confluire
nel secondo libro delle Laudi. Il foglio, che si
definiva schiettamente liberale e libero, ebbe il pregio di intuire, fra
l'altro, che il Paese aveva necessità di una svolta decisa in politica interna
e di cogliere tutta la novità della proposta politica di Giolitti, che aveva
operato una scelta di campo in favore di una democrazia partecipativa.
"Chi vuole lo Stato per una classe" -chiosava il giornale - "sta
con l'onorevole Sonnino; chi crede non possa aver forza durevole e benefica che
nel consentimento del maggior numero di persone, va con l'on. Giolitti" (Il Giorno, 24 sett. 1900).
Così ben
avviato Il Giorno sembrava destinato a lunga vita. Il 31
dic. 1900, invece, una nota avvisava della sua fusione con La
Tribuna: dal momento che il senatore L. Roux, così recitava la
nota, aveva assunto la direzione del giornale confratello, diveniva superflua
la coesistenza, se non la concorrenza, nella stessa città, di due periodici
entrambi ispirati a una politica liberale. È probabile che i motivi
d'opportunità invocati fossero davvero all'origine della decisione, ma nello
scritto si accennava anche a sacrifici finanziari eccessivi: è pur vero che i
giornali si venivano costituendo in aziende, non più affidate alla sola
"benevolenza dei lettori", spesso insufficiente a coprirne le spese.
Il L.
tornò alla guida di un periodico il 15 ott. 1905, allorché comparve nelle
edicole La Vita.
Il nuovo
quotidiano era stato voluto dalla direzione del partito radicale e anche se da
questa non dovette ricevere mai, per quanto è dato sapere, alcun aiuto
economico, ne rispecchiò con sufficiente fedeltà gli umori, sostenendo
soprattutto la componente moderata. A partire dal 1909 il giornale poté contare
su una maggiore stabilità finanziaria. Alcuni autorevoli esponenti radicali,
quali E. Sacchi, il segretario amministrativo G. Amici, i deputati A.
Giovannelli e D. Zaccagnino, in possesso di un cospicuo patrimonio personale,
lo comprarono; l'acquisto fu concluso a titolo privato e con il concorso anche
di persone di diverso orientamento politico.
Il
giornale rimase, se non portavoce ufficiale, certo abbastanza vicino ai
radicali, interpretando la linea politica del partito e intervenendo con
suggerimenti e critiche. Certo è che esso sostenne gli interessi dei ceti medi,
che di quel partito costituivano la spina dorsale e la base, e s'impegnò nella
difesa dello Stato laico, battendosi affinché fossero introdotte riforme quali
l'abolizione dell'insegnamento religioso nelle scuole elementari, la precedenza
del matrimonio civile, il divorzio e, più in generale, la separazione fra Stato
e Chiesa e la non ingerenza di questa in quello. Particolare sostegno il
giornale dette alla campagna in favore del voto alle donne, di cui fu
promotrice e anima Olga Ossani. Sul piano elettorale, infine, il quotidiano
appoggiò l'alleanza delle forze laiche e l'unione, quindi, di radicali,
repubblicani e socialisti nei "blocchi popolari". Tali riforme, per
cui il L. si batté nel corso di un decennio non andarono, com'è noto, a buon
fine. Il bilancio di questo lungo impegno si chiuse con una serie di sconfitte,
le quali significarono, anche, la sconfessione di un'Italia migliore. È
probabile, dunque, che la guerra, una volta scoppiata, gli apparisse, al pari
degli altri interventisti democratici, l'occasione per rimuovere, dal cuore
dell'Europa, il potere di un'antica nemica, l'Austria, sugli Italiani irredenti
e, nello stesso tempo, il centro dell'oscurantismo continentale. Dal momento
che La Vitaassunse, invece, un indirizzo
neutralista, il L. l'abbandonò nel 1914.
Negli
anni successivi il L. entrò a far parte della famiglia del Giornale
d'Italia e collaborò
a molte delle sue iniziative editoriali. Del quotidiano condivise la visione
del fascismo come una forza giovane, nata dalla guerra, che aveva il compito di
salvare l'Italia dall'urto di orde brutali, annebbiate dalla propaganda
sovversiva, per restituirlo a una guida moderata. Se la democrazia liberale, in
breve, non era riuscita per propria debolezza e per incapacità dei capi ad
avviare il Paese sulla strada della modernità, era necessario cercare altrove
risposte a domande rimaste per troppo tempo inevase. La delusione per le
mancate riforme portò dunque il L. a ritenere fallito il sistema che avrebbe
dovuto realizzarle. Va aggiunto che egli non trasse alcun vantaggio dal nuovo
regime.
Il L.
morì a Roma il 22 febbr. 1933, dopo una lunga malattia, ormai quasi dimenticato
da tutti.
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