Iniziato nel 1905, Leila, l'ultimo romanzo di
Fogazzaro fu presentato a Milano l'11 novembre 1910 ma era già noto da
una diecina di giorni: infatti il 10 novembre il critico Giuseppe Antonio Borgese poteva già scriveva dalle colonne de La Stampa di Torino che «i personaggi di Leila partecipano
vivamente alla vita dello spirito. Vi sono i rappresentanti dell'estrema
destra, l'arciprete don Tita, il canonico don Emanuele, le bizzochere che fan
loro bordone, gente di costumi immacolati, ma di cuor gretto e di mente chiusa,
cristiani osservantissimi secondo la lettera, ma ignari di ciò che sia veramente
la fede e la carità, sepolcri imbiancati. La gente di mal costume, il losco
sior Momi, padre di Leila, la madre galante, i furbi e gl'imbroglioni fan lega
con costoro: sante alleanze.
L'estrema sinistra è rappresentata, fino
a un certo punto, da Massimo Alberti. Egli è divenuto un vero e proprio
modernista. Scolaro ed amico del Santo, ne ha portato tropp'oltre gli
insegnamenti, è giunto a credere che l'organismo del cattolicesimo è consunto,
e che dalla Chiesa esaurita nascerà una nuova fede migliore, come dalla
Sinagoga nacque la Chiesa [...] Leila è l'estrema ombra fuggiasca di quella
figura femminile che ha per lunghi anni tormentato la fantasia di Fogazzaro,
l'estrema progenie spirituale di quella "sciura Luisa", devota a
un'altra fede morale nel cuore, vagamente e capricciosamente ribelle alla
Chiesa nella sua piccola mente irrequieta. Ma è appena un'ombra, è appena un
ricordo. Le sue crisi sono scatti di nervi provocati da onde torbide di
sensualità».
Fogazzaro scrisse di aver voluto, col
nuovo romanzo, presentare una «propaganda religiosa e morale conforme alle mie
profonde convinzioni cristiane e cattoliche, ottenuta rappresentando un'anima
ignara delle lotte che oggi straziano la Chiesa, penetrata di Vangelo e ferma
nelle credenze tradizionali», così che il libro deluse tanto i cattolici
progressisti che i conservatori e fu condannato dalla Chiesa.
Gli ultimi mesi della sua vita furono
segnati dalla delusione e dal senso di aver fatto il proprio tempo. Era molto
malato e alla fine di febbraio venne ricoverato all'Ospedale di Vicenza:
operato il 4 marzo 1911, si aggravò rapidamente; il 7 marzo ricevette l'unzione
degli infermi: «con le labbra già bianche della morte, l'agonizzante rispose
con l'ultimo soffio di voce alle preghiere della Chiesa: amen. E chi gli era vicino
comprese che egli si era addormentato in
lumine Vitae».
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