mercoledì 30 ottobre 2013

Leila, di Antonio Fogazzzaro


Iniziato nel 1905, Leila, l'ultimo romanzo di Fogazzaro fu presentato a Milano l'11 novembre 1910 ma era già noto da una diecina di giorni: infatti il 10 novembre il critico Giuseppe Antonio Borgese poteva già scriveva dalle colonne de La Stampa di Torino che «i personaggi di Leila partecipano vivamente alla vita dello spirito. Vi sono i rappresentanti dell'estrema destra, l'arciprete don Tita, il canonico don Emanuele, le bizzochere che fan loro bordone, gente di costumi immacolati, ma di cuor gretto e di mente chiusa, cristiani osservantissimi secondo la lettera, ma ignari di ciò che sia veramente la fede e la carità, sepolcri imbiancati. La gente di mal costume, il losco sior Momi, padre di Leila, la madre galante, i furbi e gl'imbroglioni fan lega con costoro: sante alleanze.
L'estrema sinistra è rappresentata, fino a un certo punto, da Massimo Alberti. Egli è divenuto un vero e proprio modernista. Scolaro ed amico del Santo, ne ha portato tropp'oltre gli insegnamenti, è giunto a credere che l'organismo del cattolicesimo è consunto, e che dalla Chiesa esaurita nascerà una nuova fede migliore, come dalla Sinagoga nacque la Chiesa [...] Leila è l'estrema ombra fuggiasca di quella figura femminile che ha per lunghi anni tormentato la fantasia di Fogazzaro, l'estrema progenie spirituale di quella "sciura Luisa", devota a un'altra fede morale nel cuore, vagamente e capricciosamente ribelle alla Chiesa nella sua piccola mente irrequieta. Ma è appena un'ombra, è appena un ricordo. Le sue crisi sono scatti di nervi provocati da onde torbide di sensualità».
Fogazzaro scrisse di aver voluto, col nuovo romanzo, presentare una «propaganda religiosa e morale conforme alle mie profonde convinzioni cristiane e cattoliche, ottenuta rappresentando un'anima ignara delle lotte che oggi straziano la Chiesa, penetrata di Vangelo e ferma nelle credenze tradizionali», così che il libro deluse tanto i cattolici progressisti che i conservatori e fu condannato dalla Chiesa.
Gli ultimi mesi della sua vita furono segnati dalla delusione e dal senso di aver fatto il proprio tempo. Era molto malato e alla fine di febbraio venne ricoverato all'Ospedale di Vicenza: operato il 4 marzo 1911, si aggravò rapidamente; il 7 marzo ricevette l'unzione degli infermi: «con le labbra già bianche della morte, l'agonizzante rispose con l'ultimo soffio di voce alle preghiere della Chiesa: amen. E chi gli era vicino comprese che egli si era addormentato in lumine Vitae».


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